Per cercare una via d’uscita alla crisi siriana, gli occhi della diplomazia internazionale sono rivolti al Cairo, dov’è in corso la riunione della Lega Araba. Dall’incontro, convocato in fretta dal segretario generale Nabil al-Arabi, dovrebbe uscire l’indicazione di una nuova missione internazionale di “osservatori” da mandare in Siria. Stavolta, però, non solo osservatori arabi, ma anche delle Nazioni unite.

Il condizionale, tuttavia, è necessario. Perché non è detto che i 22 paesi arabi trovino un accordo. Già a poche ore dal summit, il capo della precedente missione, il generale sudanese Ahmed Mustafa al-Dabi, si è dimesso. Il generale Al Dabi era stato contestato duramente dal Consiglio nazionale siriano, il principale gruppo dell’opposizione al regime di Damasco, perché in passato aveva guidato l’intelligence del governo sudanese e sul suo conto si erano addensati molti sospetti a proposito della situazione in Darfur. Le dimissioni di al-Dabi potrebbero facilitare un accordo per una nuova missione ma sono anche un segnale dell’impasse in cui la Lega araba si trova. Secondo Al Jazeera, la nuova missione dovrebbe essere composta da 3 mila osservatori internazionali (rispetto alle poche centinaia della missione precedente), da mandare in Siria per cercare di fermare le violenze e valutare anche la situazione sul campo. La Lega Araba, in questo caso, manterrebbe solo un ruolo di coordinamento. Secondo Al Arabiya, peraltro, diversi paesi arabi sarebbero sul punto di riconoscere il Consiglio nazionale siriano come interlocutore politico, una mossa simile a quella attuata a suo tempo per il Consiglio nazionale di transizione libico. Il governo di Damasco è già stato espulso dalla Lega, ma ha manifestato di recente l’intenzione di collaborare con l’istituzione, anche se a questa intenzione non sono seguiti passi concreti, primo tra tutti il cessate il fuoco.

In Siria, infatti, prosegue l’offensiva dell’esercito regolare contro Homs, la città diventata ormai simbolo della resistenza al regime. Da oltre una settimana ormai, i carri armati e l’artiglieria dell’esercito regolare colpiscono i quartieri dove sono asserragliati i miliziani del Free Syria Army e di altri gruppi armati. Il numero delle vittime continua a salire, sia tra i civili (una ventina uccisi ieri solo a Homs) sia tra le forze dell’esercito: secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, una Ong basata a Londra, undici soldati sono stati uccisi in un’imboscata dalle parti di Idlib, nel nord del Paese, vicino al confine turco. Combattimenti tra disertori e soldati sono avvenuti anche nel quartiere al-Qabun, a Damasco, mentre la tv di Stato siriana a attribuito a “gruppi terroristici” l’uccisione del generale Issa al-Khuli, freddato ieri a Damasco da un cecchino. Alcuni gruppi dell’opposizione, però, attribuiscono l’omicidio alla strategia della tensione messa in campo dal governo che ieri ha ricevuto un insperato assist dal medico egiziano Ayman al Zawahiri, il numero uno di Al Qaida.

In un video circolato su molti siti jihadisti, Zawahiri elogia i rivoluzionari siriani: “Avanti, leoni della Siria – dice al Zawahiri nel video – Confidate in Allah soltanto, nel vostro sacrificio, nella vostra resistenza. Non dipendete dall’Occidente, dagli Stati Uniti, dai governi arabi o dalla Turchia – aggiunge ancora il medico egiziano – Hanno stretto patti e appoggiato il regime per decenni”. Un regime, secondo Zawahiri, “anti-islamico”. Il governo siriano sostiene da tempo che tra i combattenti anti-regime ci siano infiltrazioni di guerriglieri jihadisti, che sarebbero responsabili dell’attentato ad Aleppo, due giorni fa, costato la vita a 28 persone (oltre a 235 feriti) e degli attentati a Damasco a fine dicembre 2011 e all’inizio di gennaio.

Appelli a viaggiare verso la Siria per unirsi ai combattenti anti-Assad circolano in effetti su diversi siti jihadisti, come Ansar al Mujahiddin, che riferisce anche della morte in combattimento di alcuni “martiri”. Difficile verificare queste notizie, ma il viceministro dell’interno iracheno, Adnan al-Assadi, ha detto sabato all’Agence France Presse che dalla provincia irachena di Ninive partono carichi di armi per i ribelli siriani, tanto il prezzo dei kalashnikov è salito fino a oltre mille dollari a causa dell’alta richiesta. Le armi passano attraverso il valico di Rabia, nella provincia di Mosul, e da lì arrivano ai combattenti siriani. Secondo al-Assadi, i guerriglieri jihadisti che erano arrivati in Iraq negli anni più duri della guerra civile e delle azioni di Al Qaida, tra il 2005 e il 2007, sono ora tornati nei rispettivi paesi: “Gli egiziani ora combattono in Egitto, gli yemeniti in Yemen e i siriani in Siria”, ha detto al-Assadi, secondo il quale dalle province sunnite dell’Iraq molto volontari stanno affluendo in Siria per prendere le armi contro Assad. Un ulteriore motivo di preoccupazione, se ce ne fosse bisogno, per i rappresentanti dei governi arabi (molti dei quali alle prese con le proprie rivolte interne e a corto di credibilità internazionale) riuniti al Cairo.

di Joseph Zarlingo

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