L’home page del sito ufficiale di Fernando Ezequiel “Pino” Solanas è divisa in due da un taglio verticale: a sinistra la politica, a destra il cinema. Nonostante l’apparente frattura, la sua attività si serve da sempre della prima per affrontare il secondo e viceversa, confermando l’inscindibile legame tra i due aspetti. Presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 68, Oro Negro incentrato sulla privatizzazione del petroliocontinua l’ambizioso cammino di Tierra sublevada, vasto progetto di documentazione dedicato dal militante “Pino” alla sua Argentina. Maestro del grande schermo e politico impegnato, il padre del documentario engagé riflette sulle contraddizioni di una nazione e sull’importanza della conservazione della memoria storica.

Come nasce il progetto di un nuovo ciclo di film dedicato alla storia del suo Paese?
In seguito alla tremenda crisi finanziaria del 2001 che ha portato alla caduta del governo di Fernando de la Rúa, in Argentina si è prodotta un’ondata democratica molto forte con persone per strada impegnate a discutere e a confrontarsi sul da farsi. Proprio in questo clima di fermento ho capito che la cosa più importante era l’impegno attivo dei giovani per la costruzione di un nuovo futuro, ma prima di tutto bisognava riflettere su una follia di fondo: com’è che una terra così ricca abbia così poco? Partendo da questa domanda ho capito che era importante costruire una sorta di risposta, di riflessione, di memoria contro la dimenticanza per contrastare il buco informativo. Dovete sapere che l’Argentina è un Paese di enorme offerta informativa e di enorme disinformazione! Abbiamo settanta canali di televisione e sei milioni di abbonati, senza avere alcuna pluralità… Si assiste solo alla moltiplicazione dello stesso discorso.

Un’opera che parte dunque dalla voglia di informare e di mettere nero su bianco una precisa congiuntura storica…
Forse ogni nazione dovrebbe realizzare qualcosa di simile, cioè un insieme di testimonianze che dia la debita importanza alla memoria, perché nel sistema attuale dell’informazione il passato viene sempre tagliato fuori. Il progetto di Tierra sublevada per ora consta di sei segmenti, ma non è detto che non cresca.

Dall’Argentina fotografata in Oro negro s’impone una riflessione più globale…
Senza dubbio. Oggi ci sono intere zone del mondo, intere popolazioni che vivono la tragedia della desertificazione e della mancanza d’acqua. Io sono vecchio, ma credo di non aver mai vissuto un periodo più ipocrita e più disumanizzato di questo che stiamo vivendo ora. Ad esempio, non importa a nessuno della situazione africana, di milioni di bambini che muoiono per la mancanza di acqua. L’umanità dà le spalle a questa tragedia. Nessuno si interessa al problema del riscaldamento globale, che è il prodotto della scriteriata diffusione dell’automobile, del petrolio Di tutta l’acqua che c’è sulla Terra solo una piccolissima percentuale è potabile, ma i vertici mondiali non vogliono prendere sul serio il problema del riscaldamento globale, anche se ci porterà all’esplosione della desertificazione, alla mancanza di alimenti, insomma, alla fine.

Come vede l’operato di Al Gore riguardo a questa problematica?
Ogni iniziativa che ha la possibilità di aprire un dibattito su un tema importante come questo va lodata e appoggiata.

Quali sono i limiti e le strettoie implicite di un cinema così basato sulla realtà?
Per quanto riguarda la natura del documentario, ci sono sequenze che puoi girare solo in un momento specifico: accadono e hanno il loro modo di essere solo in quel preciso istante, un attimo che non puoi ricreare ad hoc. Bisogna sempre fare i conti con l’imprevisto. Anche il lavoro di montaggio dura tre o quattro volte di più rispetto a un film di finzione, perché in quel caso c’è una sceneggiatura precisa da seguire, una specie di linea guida per cui il montatore fa il grosso e dopo si interviene solo per gli ultimi ritocchi. In queste pellicole, invece, c’è una struttura che devi inventare di volta in volta. Hai moltissimo materiale, cui devi dare una forma pian piano, man mano che continui a lavorare alle immagini e alle loro possibili connessioni. Si gira molto, dunque devi ridurre, togliere, produrre diverse montaggi. Torni a tagliare o ad aggiungere cinque, sei volte… Ma in questo si sente anche una grande libertà che non avresti con altri tipi di produzioni.

Nel 1968, L’ora dei forni ha reinventato il concetto di documentario, scegliendo una via di certo non facile, più intellettuale…
Era tutto un gran rischio: un film di più di quattro ore, diviso in tre parti, suddiviso ancora in capitoli, che seguiva il modello del saggio letterario. In definitiva, un lavoro provocatorio che proponeva un taglio inedito su tutto. Per un’opera del genere c’era dunque bisogno anche della costruzione di un circuito alternativo per la distribuzione, così abbiamo lavorato anche in questo senso: L’ora dei forni ha avuto la sua vita nei poli universitari e culturali, in sedi generalmente disertate dalle normali pellicole, ottenendo successo sia negli Stati Uniti, sia in Canada, in tutta l’America del Sud come in Europa.

In che modo il suo lavoro si oppone al linguaggio cinematografico condiviso?
Io rifiuto la struttura inventata degli americani: il cinema degli Studios ha ridotto quest’arte a un semplice rapporto di causa/effetto. La vita non è così. Gli americani lasciano fuori dalla sceneggiatura tutto ciò che non riguarda il soggetto, eliminando lo stesso soffio vitale. Ogni esistenza è fatta di molte linee e argomenti paralleli, quello esistenziale, amoroso, affettivo, lavorativo… Bisogna fare i conti con le aspirazioni, le inquietudini mistiche, intellettuali e filosofiche di ognuno. A volte, questi elementi procedono insieme, altre, invece, si separano. Il cinema italiano in passato è stato in grado di liberarsi da tutte le chiusure decise dalla produzione commerciale americana. Basta vedere Ladri di biciclette, che rompe ogni schema, così come Paisà o La dolce vita: ci sono linee parallele che poi s’intrecciano, per allontanarsi di nuovo, restituendo un afflato che è lo stesso vivere.

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