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La voce di Gheddafi

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Ormai Gheddafi è solo una voce che affida le ultime minacce alle radio e alle tv della notte. Stanotte cosa dirà? E da quale rifugio? Voce che inquieta chi prova a immaginare la libertà dopo i deliri dell’autocrazia. Non dà pace a colpevoli e innocenti, ai cortigiani convertiti in ribelli e ai nostri bombardieri impegnati nella caccia alla voce ormai più pericolosa del signore che parla. Resuscita vecchie paure, annuncia ricatti che possono sconvolgere le democrazie impegnate a farla tacere. Di affari, soldi,corruzione che hanno legato Gheddafi ai noi facitori intransigenti della civiltà, forse ancora uniti nei caveaux di banche misteriose.Voce che rinfaccia il passato e impietrisce chi prova a immaginare una democrazia senza slogan e bandiere: verdi, azzurre, nere, rosse.

Impossibile a Tripoli, ma quante Tripoli dalle camicie verdi attorno al Mediterraneo? Le voci possono diventare duplicati sconvolgenti di un incubo che si immaginava sciolto, invece l’eco di una voce è l’ultima minaccia a morire di chi non c’è più. Bisogna spegnerla per tornare alla vita. Quale vita? Dubbio per i rivoltosi che hanno vinto la rivolta, e per i paesi del G8 che l’hanno nutrita con “benevolenza verso la primavera araba” e non per interesse al petrolio, come sappiamo. Solo quando spariranno le voci del passato può cominciare la costruzione della normalità.

Ricordo delle notti della Sarajevo assediata. Dalla collina di Pale la voce dello psichiatra Karadzic minacciava lo sterminio e il sonno non arrivava tranquillo. Nessuno ha chiuso occhio quando il generale Mladic annunciava l’attacco finale ricordando la conquista di Srebrenica a chi aveva ascoltato altre voci che raccontavano il massacro. Quando la voce di Bin Laden prometteva un altro 11 settembre e i bombardieri lo cercavano senza trovarlo, governi e televisioni balbettavano per capire quanto potevano essere concrete le minacce.

Ormai è questione di ore, giorni, forse qualche settimana e poi Gheddafi smetterà di parlare dall’oscurità. E la nuova Libia potrà organizzare la democrazia. Con qualche cautela che si raccomanda a chi ha aiutato i ribelli arovesciare il rais.

Primo: non impossessarsi della vittoria considerata impossibile senza i nostri consiglieri militari, armi, missili, e Predator. Hanno vinto loro, lasciamoglielo credere.

Secondo: nessun Sarkozy si metta in cattedra per pianificare la “futura democrazia” nella prospettiva del pompare petrolio e appalti della ricostruzione. Non ripetere gli errori tragici dell’Iraq che Bush annunciava di aver liberato impegnando le multinazionali a costruire opere imponenti che ancora non funzionano. 19 miliardi di dollari investiti da Washington sono piùo meno finiti così. Servono piccole opere promosse da singole comunità per risolvere bisogni urgenti. Supervisioni affidate non ai vincitori giacca e cravatta, ma a tecnici di Paesi non coinvolti nella “conquista”. Norvegesi, per esempio, la cui serenità costruttiva si è rivelata dopo il massacro di Oslo.

Terzo: il governo di transizione e le tribù che ereditano i poteri di Gheddafi sono divisi da antagonismi secolari complicati da contrasti personali all’interno di ogni gruppo. Anziché programmare impossibili elezioni politiche, servono elezioni locali per definire almeno la gerarchia delle rappresentanze da mettere a confronto. Non cadere nella farsa delle prime elezioni dell’Iraq dove si è votato con vecchissimi elenchi, voti scrutinati in Giordania, non si sa come e non si sa da chi. Speriamo che questo passato non ritorni mentre la voce di Gheddafi si allontana.

Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2011

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