Nel vivo della polemica con Bossi e, causa Lega, anche con Vendola, i lavori della prima Conferenza nazionale per il lavoro, organizzata il 17 e 18 giugno a Genova dal Partito democratico sono passati in secondo piano. Eppure si è trattato di un passaggio importante per la marcia verso il governo impressa da Bersani al suo Pd, perché su quel tema – che tocca i rapporti con i sindacati, la Confindustria, la precarietà, le aspirazioni sociali – la prova di governo si rivela cruciale. Non è un caso che il documento finale sia stato votato all’unanimità, segno di un partito che, tornato a vincere, intende mettere da parte le polemiche e le divisioni e dimostrare di essere unito. Tranne il senatore Pietro Ichino, che non ha apprezzato le conclusioni – posizione che ha permesso al Corriere della Sera di lamentare il passaggio dalla visione “liberalsocialista” di Veltroni a quella “neolaburista” di Bersani – tutte le anime si sono quindi ritrovate attorno a un documento. Ma cosa dice il testo? E cosa, in particolare, sulla precarietà che è diventata ormai questione cruciale (insieme, va ricordato, alla questione dei contratti che anima lo scontro Fiat-Fiom)?

La proposta del Pd è semplice quanto scarna: fare in modo che un’ora di lavoro precario costi di più di quello stabile. Come? Con benefici fiscali a chi assume stabilmente, modulazione diversa degli incentivi, insomma tramite una leva fiscale e legislativa. Una strada che, se si guarda al passato, non sempre ha dato frutti positivi. Si guardi al caso Teleperformance, l’azienda di call center che vuole licenziare oltre 1400 lavoratori sui circa 3000 a contratto. L’azienda nel 2007 rispettò la circolare Damiano che imponeva di trasformare i contratti a progetto chiaramente subordinati in contratti a tempo indeterminato. Teleperformance si adeguò anche perché, contemporaneamente, beneficiava della legge 407 del 1990 che offriva contributi gratis per 36 anni alle imprese che, al Sud, avessero assunto disoccupati. Un chiaro caso di incentivazione al lavoro stabile. Teleperformance, che ha la sede più grande a Taranto, ha promesso un futuro stabile ma allo scadere dei 36 mesi la società ha attivato le procedure d’urgenza per avviare i contratti di solidarietà e poi per licenziare. Gli incentivi non sono serviti a molto e dopo averne beneficiato l’azienda non solo licenzia ma ha già delocalizzato parte delle sue attività in Albania.

Altra contraddizione il Pd la percorre quando affronta il tema spinoso del contratto nazionale. Più che scegliere tra Marchionne e gli operai si è tornati al più tradizionale “ma anche” con un corollario negativo. La proposta avanzata dalla Conferenza, infatti, è di riformare “il modello centrato sul contratto nazionale di lavoro” anche se il contratto nazionale “resta uno strumento irrinunciabile per garantire la tutela del lavoro e regolare la competizione” L’idea è che per contrastare la richiesta della Fiat, e ormai fatta propria anche da Confindustria, di applicare “deroghe” al contratto nazionale, è bene che quest’ultimo sia “alleggerito per materie regolate” e contemporaneamente vada esteso il secondo livello. Si dimentica, però, che gran parte del mondo del lavoro è privo di contratti di secondo livello ma si basa solo sul contratto nazionale. Indebolendo questo, oltre a destrutturare la griglia dei diritti acquisiti, come denuncia la Fiom, si indebolisce la maggioranza dei lavoratori. Il fatto che la proposta vada solo in direzione delle imprese, di cui si cerca di assumere le esigenze, per compensazione si rilancia la “democrazia economica”, cioè “la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese” tramite “comitati consultivi permanenti”, “con l’inserimento di rappresentanti eletti dai lavoratori nei consigli di sorveglianza”. Un modello tedesco in assenza, però, di un sistema tedesco (regole, salari, orari, sistema complessivo).

Insomma, la svolta laburista di cui parla il Corriere della Sera forse esiste in relazione alle fantasie liberiste di Veltroni e soci ma il Pd sul lavoro, sui contratti, sulla precarietà, mantiene un approccio debole e sottomesso ai voleri delle grandi imprese. Mentre invece la loro egemonia culturale viene incrinata da eventi come il referendum sull’acqua – che boccia i profitti facili – o la protesta dei vari “indignati” d’Europa. Durerà?

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