Calabritto è uno dei centri di quello che viene amaramente etichettato come il “cratere dimenticato”. Da queste parti i soccorsi sono giunti tre giorni dopo la catastrofe del 23 novembre 1980. Per almeno 60 ore i superstiti hanno scavato solo con la forza di mani, pale e disperazione alla ricerca dei congiunti rimasti intrappolati sotto le macerie. Cento morti censiti, trecento feriti su un totale di 2800 abitanti residenti in paese al momento del terremoto. Io ho 28 anni e non ho vissuto direttamente quei terribili momenti che hanno cambiato per sempre il corso della storia di Calabritto. Ma sulle mie spalle, come su quelle della generazione del post-sisma, si sono sedimentate tutte le conseguenze di una pesante lacerazione urbana e sociale. Che ha generato conseguenze disastrose. Faccio parte della cosiddetta “generazione dei container”: l’infanzia l’ho vissuta in quei prefabbricati pesanti infarciti di amianto, dislocati in quattro zone periferiche del paese e sistemati in “piazzole” ideate su più livelli. Quella lì è stata secondo me la genesi del gravissimo processo di disgregazione sociale che ha trasformato l’identità di Calabritto. Prima del sisma era un apprezzato centro storico settecentesco: le case ammucchiate una sull’altra come in un presepe, la piazza circondata da palazzi, cuore pulsante della vita con i suoi quattro bar, il belvedere (“passiaturo” in dialetto) che ospitava la passeggiata serale, l’antica chiesa madre che sbucava tra una casupola e l’altra dopo aver percorso una sorta di “corridoio” dritto che conduceva in piazza.

Il 23 novembre ha distrutto il 95% del paese e il restante 5% delle abitazioni ha subito lesioni gravissime. Dopo pochi mesi è iniziata la nuova vita nei container. Un trauma a tutti gli effetti perché ogni famiglia trascorreva la giornata nella propria piazzola che gradatamente assumeva le sembianze di un piccolo “feudo”. L’interazione era ridotta a quella manciata di persone che condividevano questo enorme spiazzo puntellato da prefabbricati col tetto rosso. Non esistevano più gli stessi punti di aggregazione che avevano caratterizzato la vita calabrittana per secoli. Ricordo la frase di una vecchietta, mia vicina di container, che prima del sisma abitava in pieno centro storico: “Quando avevo bisogno di qualcosa, basta che mi affacciavo alla finestra e chiamavo mia sorella che usciva fuori sulla finestra di fronte. Ora io sto qui alla prima piazzola e lei alla decima. Ci vediamo, se Dio vuole, un paio di volte alla settimana”. Un episodio, a mio avviso, emblematico.

E il disastro si è completato con la lentissima ricostruzione che ha concepito l’abolizione totale del modello urbano precedente. Calabritto è l’unico comune della provincia di Avellino che non possiede un centro storico. Sembra assurdo ma è così. Cercherò di trasmettervi la nuova struttura: pensate ad una piovra con una testa piccolissima. Quello è il nostro paese: una piazza immensa, dalla quale partono lunghissime arterie, come tentacoli, che collegano il cuore alle periferie. E le abitazioni sono tutte dislocate lungo queste strade (la periferia estrema dal centro dista circa due chilometri, ma parliamo di un paese che ora conta 2000 residenti…). Insomma, frantumazione sociale all’ennesima potenza. Non hanno un’anima né centro, né periferia.

Calabritto sta morendo. Ora al vuoto sociale si è aggiunto anche il vuoto lavorativo. Ha perso in trent’anni quasi 1000 abitanti, la metà dei quali giovani. Si scappa lontano da questo comune di frontiera a cavallo tra Irpinia e Salernitano alla ricerca di un futuro, di una prospettiva che da queste parti non si intravede.

Gelsomino Del Guercio

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