Ad un tratto nel corridoio della materna, entra un bambino che per camminare si appoggia ad uno strano carrellino. I piedi vanno uno contro l’altro. La testa è deformata. Lo seguono i due genitori. Li guardo, con la finta distratta morbosa curiosità di scoprire, immaginandolo, come si possa convivere con un simile disagio. Lui ha lo sguardo sereno. Lei pure. Lui, solo a tratti, sembra stanco. Ha un bel giubbotto nero targato Bmw. Immagino che abbia la moto. Perché le cose non cambino fino in fondo, nel disagio.

Un altro bambino piange come un disperato.

Il mio bambino più grande, quello che oggi lascia la materna per sempre, è contento. Mi bacia. Batte gli occhi in continuazione. Dice lui che è un vizio. Io so che invece è il sintomo del suo difetto, lievissimo, alla vista. Ecco, la vista. C’è qualcosa che non va anche nei miei occhi, stamattina. Sì, saranno queste lacrime, che me li appannano. Io vorrei piangere in libertà, questa mattina, non voglio fare le foto al mio bambino più grande che va in prima elementare e al mio secondo figlio che oggi lascia il nido e va alla materna. Non voglio mostrarmi felice e guardare con conseguente fierezza i miei figli.

Fatele voi, le foto, voi che vi sentite felici.

La mamma dei miei figli è nell’aula della materna, con il mio secondo figlio in braccio. Lo sapevamo che lui sarebbe stato il problema. Non vuole rimanere in aula senza la mamma. Adesso mi appare veramente piccolo. E’ piccolo, un bambino di tre anni.

La mamma di Alessandro si è finalmente tolta il foulard dalla testa. Segno che le cose vanno meglio, i capelli sono ricresciuti.

La mamma di Leonard, donna dell’est, ha qualcosa sulla pelle che le spunta dai pantaloni, dietro, dove inizia il sedere. Sarà un tatuaggio, di quelli che fanno immaginare chissà cosa e stanno lì forse anche per quello.

Il bambino del carrellino parla molto bene. Sta commentando al papà il pianto del suo compagno di classe che non vuole rimanere a scuola senza i genitori. Lui a scuola invece ci vuole andare, fiero del suo grembiule a piccoli scacchi bianchi e celesti, come quello dei suoi compagni di classe. La mamma lo guarda e sorride al marito o compagno che sia.

La mamma dei miei figli è molto bella e come al solito è vestita in maniera diversa da tutte le altre mamme. Indossa sempre tutto con estrema grazia, lei.

Tanti bambini urlano le loro lacrime.

Il mio bambino più grande mi prende la mano. E mi chiede di non partire. E mi ricorda, sorridendo, tutte le altre partenze. Le ha notate. Forse le ha anche sofferte, senza darlo a vedere. Ma io devo partire. E così mi lascio la scuola alle spalle. Vado verso casa a recuperare i bagagli. Salgo le scale. Entro dentro casa. Mancano ancora quaranta minuti alla partenza del treno. Andrò come al solito alla stazione con lo scooter. Ci metto quindici minuti. I bagagli sono già pronti. Sì, mi posso sedere qualche minuto sulla sedia a dondolo. Appoggiare la testa allo schienale. Chiudere gli occhi. Piangere.

Perché la vita di quel bambino che spinge il carrellino non sarà una bella vita. Perché ancora tante volte dovrò partire dai miei figli. Perché la scuola è un po’ una violenza per tutti quei bambini che non vogliono che i genitori vadano via. Perché Sara, la maestra bella della sezione C, chissà quest’anno dove l’hanno sbattuta. Perché pochi di tutti i bambini che oggi ricominciano ad andare a scuola da grandi sorrideranno. Perché oggi sarà come ieri e come domani.

Dimenticavo: prima di andarmene dalla scuola, mi sono reso conto che quello che sporgeva dai pantaloni della mamma di Leonard non era un tatuaggio. Erano semplicemente mutande.

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