Sono un lettore di poesie. Ce n’è ancora qualcuno, per quanto possa apparire sorprendente. Non solo, sono uno di quei pochi che quando entrano in una libreria si riservano un momento di grazia perfetta, di isolamento dal mondo, per un giro intorno allo scaffale dedicato alla poesia.

In certe librerie gli scaffali della poesia ci sono ancora, ma sono come i loro frequentatori, sempre più invisibili, sempre più nascosti, per consultarli c’è bisogno di buone gambe e articolazioni salde, noi lettori di poesie siamo costretti a inginocchiarci per adocchiare i dorsi di volumi misteriosi, obbligati e compressi dentro spazi radenti il piano della moquette, o al contrario allunghiamo il collo come giraffe per sfidare le altezze di ripiani vertiginosi, per sceglierci il nostro Darwish o il nostro Sarajlić che magari stazionano da mesi sotto il soffitto, come le falene.

Qualche volta ci riconosciamo, noi lettori di poesie. Ci ritroviamo lì a volteggiare come satelliti lenti davanti allo scaffale ammaliante, ci scrutiamo con la coda dell’occhio, quasi timorosi che un commesso realista o un cliente di gusti crudi e pragmatici ci faccia una ramanzina per questo nostro vizio da sconsiderati. Noi non arriviamo mai con la lista della spesa, non cerchiamo mai un titolo preciso, un nome, noi siamo come i reduci dalla guerra che vanno alla borsa nera, compriamo quel poco che c’è, quello che si trova in tempi di carestia.

Stando così le cose, siamo portati a credere che la poesia sia un genere praticamente morto, o al più agonizzante ai margini dell’industria culturale, senza lettori, senza futuro. Invece dirò a sorpresa che la poesia contemporanea, fuori dalle librerie, gode di ottima saluta. Non solo per quanto riguarda la qualità letteraria di autori sorprendenti che provengono da ogni parte del mondo, ma per la capacità che ha dimostrato di adattarsi ai contesti più avanzati della modernità.

La poesia, per esempio, ha trovato nel web una sponda inaspettata. La sua misura naturale si armonizza ai tempi di fruizione di internet come nessun altro genere letterario. I nomi dei poeti circolano, l’eco del loro lavoro si propaga con una fluidità che fino a un decennio fa era impensabile. Non c’è mercato, vero (anche se l’e-commerce indubbiamente aiuta, soprattutto quelli come me, i lettori di poesie), e la nuova ideologia totalitaria del mercato, si sa, tende a cancellare ogni forma che si mostri riluttante alle sue regole. Eppure la poesia sopravvive al mercato, lo cavalca, perché la poesia è come la religione, sopravvive a ogni finimondo, a tutte le rivoluzioni. E questo è ancora un buon motivo per amare e sostenere la poesia.

E allora ecco che quelle nicchie, quelle chiesuole riparate, quei piccoli ghetti negli angoli più remoti delle librerie in cui mai nessuno cerca nessuno (eccetto pochi frequentatori ostinati e poco assennati come il sottoscritto) sono diventate quanto di più inattuale, sorpassato, obsoleto. Lo dico col cuore spezzato: farebbero bene i librai a farne a meno, una volta per tutte, tacere per sempre questa farsa, questa carnevalata. La poesia si è sposata con la libreria per un intervallo limitato della storia, è stato un matrimonio d’interesse. Ora è venuto il momento di liberarla dai lacci di questo romanticismo, di disincagliarla dalle secche dell’industria editoriale, di farla volare libera nel cielo contemporaneo, completamente assolta, autosufficiente.

Se non avete capito l’imperitura modernità della poesia, la poesia non vi merita.

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