La difesa e la cultura della memoria sono beni fondamentali per capire il presente e progettare il nostro futuro. Memoria che media e istituzioni stanno invece cercando in tutti i modi di edulcorare se non addirittura rimuovere. Ci stiamo avvicinando al 19 luglio, anniversario della strage di via d’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque ragazzi della sua scorta. “Una strage di Stato”, ha ribadito a Palermo lo scorso martedì Salvatore Borsellino durante la presentazione del documentario de Il Fatto “Sotto scacco“, “che lo Stato vuole a tutti i costi cancellare dalle nostre memorie”.

Capire, studiare il depistaggio di Stato che ha seguito quell’evento (come ben ricostruisce il libro L’agenda Nera, di Lo Bianco e Rizza, la cui lettura consiglio vivamente) è un nostro preciso dovere civico. Non si può parlare, avere un’opinione di quanto accade oggi, prescindendo da quanto avveniva 20, 30 o 40 anni fa. Putroppo, però, negli anni, con il mio lavoro ho tristemente verificato come tanti, troppi, anche tra giornalisti e uffici stampa politici, siano all’oscuro degli eventi che segnarono la più recente storia d’Italia. Proprio loro, che dell’informazione fanno la loro professione, se ne disinteressano a cuor leggero. Evidentemente troppo impegnati a metter a segno punti per la loro carriera.

A questo proposito mi viene in mente un episodio che risale allo scorso anno. Passeggiavo per Milano con un giovane addetto stampa di un noto politico del Pd impegnato a livello nazionale, uno di quelli che spesso si vedono nei salotti televisivi. C’eravamo appena conosciuti e io, da buon milanese, facevo da cicerone al romano testé giunto in tournèe nella metropoli lombarda. Stavamo camminando tra le aiuole di fronte all’entrata della centrale caserma della Polizia Municipale. Indico le due lapidi in memoria di Pinelli collocate sul prato, e dico al mio ospite: “vedi, la città dalla doppia memoria”.

Il giovane professionista della comunicazione politica dà una veloce occhiata ai marmi, e guardandomi con espressione brancolante nel buio mi fa: “e chi era Pinelli? Non ricordo”. Vengo immediatamente scosso da un travaso di bile, ma la mia gentilezza e il mio atavico ottimismo mi permettono di non demordere. In fondo, penso, è di Roma, è la prima volta che si trova a Milano ed è molto giovane. Gli tendo una mano: “Vedi, qui siamo in piazza Fontana. La strage, hai presente?”. Risposta: “a sì sì certo! Aspetta aspetta, non dirmi niente”. Taccio e attendo, fiducioso e in parte già rincuorato. Ma dopo il suo sforzo di concentrazione, arriva la mazzata definitiva: “ecco, sì, la strage di piazza Fontana, non ricordo l’anno preciso, comunque tra la prima e la seconda guerra mondiale, certo”.

Certo. Ora, nei giorni scorsi abbiamo letto dell’indignazione e della lotta di un gruppo di giovani del Pd che a fatica sopportano di ascoltare ancora il termine “compagni” durante riunioni e incontri vari di partito. Un termine, a loro dire, ormai desueto, da abbandonare. Su questa diatriba generazional-lessicale all’interno del Partito Democratico ognuno può avere la sua opinione. Di certo, quando da più parti si auspica maggior spazio ai giovani, soprattutto in politica, si pensa all’apporto di energia, freschezza e capacità innovativa.

Un consiglio spassionato, però: comunque vogliate definirvi durante le vostre assemblee, senza memoria rimarrete solamente dei freschi, energici, giovani imbecilli.

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