La prima cosa bella, la nuova prova (d’autore) firmata da uno dei registi meno “italiani” del nostro cinema

Paolo Virzì è l’erede naturale della commedia all’italiana. Si sa. Ma è anche uno dei pochi registi nostrani (con Sorrentino, Garrone e Tornatore) in grado di “mettere la cinepresa” fuori dai patri confini.
In grado di carpire cosa fanno gli autori in Europa, nel mondo, di sprovincializzare sul serio il cinema italiano. Il film più intimista di Virzì, La prima cosa bella, significa soprattutto questo per la sua filmografia. Almodovar, Cassavates, Demme (Rachel getting married): ci sono anche loro, oltre a Pietrangeli e Scola, nel pantheon di questa complessa storia famigliare.

C’è Tutto su mia madre, oltre a Io la conoscevo bene. La prima cosa bella è infatti un film sulle relazioni famigliari e sul rapporto dei personaggi con le proprie radici. Ed è il primo film in cui manca il tratto più forte del suo cinema: l’intreccio inossidabile tra le storie dei personaggi (a cui il regista è da sempre molto attento) e le dinamiche sociali, politiche che producono e condizionano le frustrazioni, i disagi e le illusioni dei suoi protagonisti.

In questo senso, Ovosodo e Tutta la vita davanti restano i capolavori di un regista perfettamente in grado di analizzare l’Italia e di raccontarne le storie più emblematiche. La prima cosa bella si concentra invece sul rapporto tra una madre e un figlio. Anche se i fratelli sono due, Bruno (Valerio Mastandrea) e Valeria (Claudia Pandolfi), figli di Anna una madre vitale e svitata, bellissima e sensuale. Una donna buona e puerile, che dipende dagli uomini (dalla loro benevolenza e dalla loro violenza) e costringe i bambini a un’infanzia sballottata tra hotel e scantinati. È soprattutto il protagonista maschile, però, a dover fare i conti con l’accettazione della propria storia, mai elaborata, nel momento in cui Anna sta morendo. Perchè Bruno, a differenza di Valeria, ha abbandonato la natia Livorno, fuggendo a gambe levate da un rapporto viscerale con cui non riesce a fare i conti.

Anna è interpretata da due diverse attrici: da giovane ha il volto (splendido) di Micaela Ramazzotti; negli ultimi giorni è incarnata da una perfetta Stefania Sandrelli. Virzì affronta temi forti. Perchè i genitori mica te li scegli, li subisci. Al massimo te ne allontani, li rifiuti. Ma non puoi evitare di accettare l’irrazionalità, la casualità imponderabile che fonda i legami famigliari: sarebbe come, sembra dire Virzì, non affrontare mai il rapporto con la vita. Anna, nel film, è la vita. Insensata, sciocca, fortissima. La vita non deve fornire spiegazioni.

Ti mette al mondo, una madre. Ti sbatte in mezzo ai venti dell’esistenza. Ma poi spetta ai figli stare in equilibrio e imparare a volare. Tutto ciò diventa chiaro, non a caso, quando la madre sta per morire. Di fronte al mistero supremo (la vita e la morte sono inseparabili; la vitalità di Anna e il suo caos sono inscindibili), i personaggi saranno costretti a guardare in faccia le proprie irresolutezze. Sbrogliando il mistero “materno”, i personaggi cambieranno. La prima cosa bella è un film molto, troppo, denso di temi, di scenari emotivi, di cinema. Non sempre questa complessità è ben governata.

Il secondo tempo svetta sul primo. Le scene finali sono le più riuscite del film. La parte a Livorno, nel presente, è più riuscita dei flash-back ambientati negli anni ’70. Dove Virzì spiega troppo poco la visceralità del rapporto madre-figli. Il personaggio di Anna da giovane stride, inoltre, con quello di Anna “matura”. La Sandrelli è un vulcano di energia. Anna trentenne è soprattutto una donna scaraventata da una parte all’altra dalle proprie pulsioni. Vittima di se stessa, in fondo, mentre la Sandrelli sembra una forza inscalfibile, prodotto puro dello slancio vitale. Le due “Anne” non sembrano lo stesso personaggio. I due fratelli, inoltre, non sono tratteggiati con la dovuta precisione.

La scena più bella del film, non a caso, è quella dello sfogo della Pandolfi, che mostra allo spettatore l’amore e l’amarezza che Valeria prova nei confronti di Bruno. Ci sono poi scene in cui emerge forte il tema psichico profondo, che è il rapporto con la morte legato alla paura (infantile) dell’abbandono e della violenza degli adulti. Bella la scena in cui la zia taglia i capelli ai bambini che hanno i pidocchi, bella la scena in cui Anna va a “rapire” i figli in una serata di pioggia. Sono squarci di reminiscenze fanciullesche orrorifiche. Che sottolineano quanto l’infanzia sia il luogo della memoria in cui si depositano le paure legate al mondo dei “grandi”. La prima cosa bella non è un capolavoro.

È un momento importante, ma di transizione, nella carriera di uno dei migliori registi italiani. Un momento di passaggio tra la commedia sociale, in cui Virzì dà il meglio di sé e, forse, un approdo più esistenzialista, sentimentale, ancora non perfettamente rodato.

Voto: 7

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