Roma, la fuga dalla politica di una borghesia parassitaria

19 Settembre 2016

Per chi non vive a Roma, l’aspetto più incomprensibile del caos esploso nella giunta di Virginia Raggi è pre-politico: possibile che in tutta la Capitale d’Italia non si trovi qualcuno per fare l’assessore che sia competente, incensurato e politicamente compatibile? Non dovrebbe esserci la fila di professionisti e funzionari che, anche per una paga simbolica, chiedono di servire la città per senso del dovere e per la ricerca di uno status che soltanto il ruolo pubblico può garantire? E invece nulla. Come se non ci fosse più un’élite che contempla anche la politica tra i suoi interessi e tra i suoi doveri. Perché l’élite – o meglio, la borghesia – romana (e dunque nazionale) è mutata, forse degenerata: ha rinunciato a ogni ambizione collettiva, vede quell’area indistinta tra Parlamento, studi televisivi, imprese del para-Stato e alta burocrazia come una somma di codici indecifrabili ai più, ma garanzia di prosperità per chi li sa maneggiare. Per approfittare ancora un attimo dei buffet, delle consulenze per non fare nulla, della promozione conquistata tra una cena e un dopocena.

È una mutazione antropologica della classe dirigente in quella che qualcuno chiama “classe digerente”, raffinatissimi parassiti di un mondo che non hanno più l’ambizione di guidare. Dunque meglio limitarsi a goderne. Però di questa mutazione non si trovano resoconti, perché tutti quelli che sarebbero titolati a darne conto – giornalisti, scrittori, sociologi – non osano descrivere la decomposizione di un sistema di relazioni del quale, a seconda della generazione di appartenenza, hanno fatto parte o stanno provando ad avvicinare per assaporarne un attimo il gusto, prima della fine. Un’eccezione a questa omertà è Gin tonic a occhi chiusi, il nuovo libro di Marco Ferrante, giornalista economico, autore televisivo (è vicedirettore di La7), scrittore. Nella famiglia Misiano ci sono i tratti di quella borghesia romana che ama immaginarsi eterna e che invece sta finendo: un po’ di ricchezze ereditate, che garantiscono barche e case delle vacanze, oltre alla dose minima di servitù necessaria a una certa vita sociale.

I tre fratelli Misiano hanno tre tipiche carriere romane: Gianni mette insieme senza fatica un reddito da un milione all’anno progettando strutture fiscali per aiutare certe imprese a pagare meno tasse, Paolo è un politico (non sapremo mai di quale partito, ma è davvero importante?) che per vincere la noia di un lavoro non necessario ma privo di alternative cerca una causa per stare in tv, e poi Ranieri, giornalista, opinionista, refrattario al lavoro di redazione ma abilissimo a capire quali segnali mandare nei suoi editoriali per farsi trovare sempre là dove è più utile, anticipando le evoluzioni del micropotere italiano. Ranieri ha un’ossessione: chiede sempre “qual è il contributo al Pil” di attività, persone, vite. E per i Misiano, di tutte le tre generazioni, l’impressione è che l’unica risposta onesta sia: zero. Nessun contributo al Pil o alla comunità.

Il politilogo e poi senatore del Pd Carlo Galli in un suo libro parlava di una élite di “riluttanti”: erano gli anni del governo Monti, si poteva ancora sperare che i tecnici prendessero in mano la cosa pubblica salvandola da una politica ormai consapevole della propria inadeguatezza. E invece anche i professori, i banchieri, i manager sono stati sfiancati dalla mollezza che li ha avviluppati, quella che il libro di Marco Ferrante osa raccontare. Anche nella famiglia Misiano c’è un “riluttante”, il patriarca Edoardo: l’offerta di un incarico pubblico importante potrebbe salvarlo da un triste finale di vita, solitaria e vuota.

Ma non è tempo di Cincinnati, inutile illudersi. Per qualche breve istante si è discusso, in Italia, se in politica si scenda (Silvio Berlusconi) o si salga (Mario Monti). Ma per i fratelli Misiano, incluso per il deputato Paolo, la politica non è una chiamata, ma un argomento di conversazione utile per depistare il discorso a tavola quando, nei pranzi di famiglia, arriva troppo vicino a storie di tradimenti e rancori che devono restare non detti. Perché la politica è un argomento innocuo, certi slogan assertivi e opinioni nette (le tasse da ridurre, gli sprechi da tagliare, le pensioni d’oro…) sono stati così ripetuti e masticati da aver perso ogni significato intrinseco, ridotti a “cheap talk” indistinguibili dai commenti sul meteo.

Nel nuovo romanzo di Jonathan Safran Foer, Eccomi (Guanda), una catastrofe geopolitica costringe una coppia prossima all’esplosione, in particolare Jacob, marito e padre, ebreo di Washington, a mettere in prospettiva il proprio dramma individuale, a cercare un senso e un’identità nell’appartenenza: alla cultura e al mondo ebraico, perfino a Israele. I tre fratelli Misiano, invece, non vedono alcuna sovrapposizione tra i propri destini individuali e quelli della comunità cui appartengono: non è il riflusso degli anni Ottanta come ribellione contro l’impegno, non è l’affermazione ideologica e nobile del singolo sul gruppo, è soltanto spirito di sopravvivenza di chi ha capito – come diceva Elsa, la nonna, vero capofamiglia – che in questa Roma e in questa Italia prosperano “i più adatti”. Che non sono affatto i migliori. A questa borghesia si può chiedere al massimo, come da titolo del libro di Ferrante, un semplice Gin Tonic ben fatto. Ma non di partecipare al governo della cosa pubblica.

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