L’intervista a Gianni Cuperlo

Gianni Cuperlo, “Il Pd non c’è più, è quasi estinto: un comitato elettorale per potenti”

Il leader della minoranza dem: “Serve subito un tagliando e un cambio di politiche e dirigenti”. Altrimenti, “siamo un corpo senz’anima”

1 Agosto 2016

Se non cambia, il Pd è l’anticamera di un partito estinto”. Gianni Cuperlo lo ripete senza esitazioni. Di quel partito, o meglio della sua minoranza, è uno dei dirigenti più importanti. Misura la forma delle parole ma non rinuncia al peso dei contenuti: “In questo momento – dice – è utile anche essere impietosi. Non si tratta di remare contro, ma neppure si può nascondere la polvere sotto il tappeto”.

È più semplice essere impietosi con Renzi quando perde, non è vero?

Per la verità quello che avevo da dire gliel’ho detto anche quando aveva il 40%. Semmai questo rilievo va rivolto ad altri. Io avevo invitato a una riflessione già dopo le Regionali dell’anno passato. In Veneto avevamo perso il 68% dei voti delle europee, in Toscana avevamo lasciato 450 mila voti, in Campania 430 mila.

Poi sono arrivate le Comunali.

Colpisce la rapidità con cui è stata archiviata la qualità della sconfitta: nel voto c’è stata una reazione persino di rabbia di un pezzo del nostro elettorato. Hanno scelto di votare “contro” di noi. Contro il governo, il premier, il Pd.

Sul Fatto, Fabrizio Barca ha denunciato la deriva del Pd (criticando anche la minoranza). Viene premiata “la fedeltà” invece del merito e si dimentica la parola “lavoro”.

Non lo considero un attentato al gruppo dirigente, ma un grido d’allarme. Non possiamo nasconderci quello che il Pd è diventato oggi, a volte persino in modo patologico. Un partito che non c’è più: si è trasformato in un comitato elettorale permanente al servizio di potentati locali.

Un “partito estinto”, ha scritto sull’Unità.

Ezio Mauro ha usato una definizione ancora più severa: “Un corpo senz’anima”. Peraltro con luoghi dove anche il corpo è consunto. Nonostante un popolo generoso che resiste, è come se abdicassimo alla nostra funzione.

Quale?

Dire chi sei e con chi stai. Io non chiedo al Pd di contrastare l’azione del governo – nessuno è così sciocco – ma di sollecitarlo nelle scelte che compie. Non voglio alimentare la polemica sul fatto che il segretario sia anche premier, ma faccio un esempio pratico: il veto di Ncd sul reato di tortura. Se avessimo avuto un partito con una guida autonoma, avremmo potuto incalzare il governo e aiutare il premier a superare quel veto, che è inaccettabile. Guardi che non lo dico con l’atteggiamento di chi vuole colpire il Pd. Non abbiamo sbagliato una campagna elettorale, ma il racconto del Paese.

Qual è stato il racconto del Paese di Renzi?

Non puoi dire che la crisi è alle spalle o che il Jobs Act è la cosa più di sinistra fatta negli ultimi anni. La Cgil ha raccolto 3 milioni di firme su tre referendum: è la prima volta nella sua storia. Quando spieghi che per i lavoratori Marchionne ha fatto più di tutti i sindacati, ti metti in urto con la parte del Paese che dovresti rappresentare.

La politica economica renziana ha fallito?

È stata troppo in continuità con quelle di Monti e Letta. Certe idee potevano valere 10 o 15 anni fa. Non si può pensare di “rieditare” le opere di Blair o Bill Clinton. Persino Hillary ha proposto politiche espansive, il salario orario minimo a 15 dollari, un piano di infrastrutture per creare lavoro che non ha eguali dai tempi di Eisenhower. Non pretendo una rivoluzione, ma la sinistra le sue ricette deve ripensarle con un coraggio che finora è mancato. Al netto di cose buone che riconosco, come sui migranti o nel contrasto alla povertà.

Lei e la minoranza sembrate come quei calciatori che giocano contro il proprio allenatore per farlo esonerare. Certe scelte i tifosi non le perdonano.

Non ho mai fatto il tifo contro la mia squadra. Mai. Ho sempre discusso e portato le mie proposte per migliorare. In campagna elettorale sono andato a chiedere il voto per il Pd sempre e ovunque: per Fassino, Sala, Cosolini, Giachetti. Persino a Sesto Fiorentino, dove è caduta la nostra giunta e il Pd ha espulso 8 consiglieri, tutti della minoranza. Solo a Napoli non sono andato: una coalizione con Verdini non c’entra nulla con la sinistra.

Ribalto la metafora: fino a quando resterete in una squadra con un allenatore che fa giocare così male? Che ci fate dentro al Pd?

Si resta nel proprio campo perché si crede che possa cambiare. Per vincere, il Pd deve essere il perno del centrosinistra, come a Milano, Bologna e Cagliari. Restando sulla metafora del pallone: dovremmo praticare più calcio totale, come l’Olanda del ‘74. Senza ruoli fissi: tutti devono correre come pazzi e coprire la porzione di campo lasciata scoperta dal compagno. Se abbiamo un vuoto sull’ala sinistra, dobbiamo colmarlo, prima che lo occupi qualcun altro.

Se Renzi vince il referendum però va avanti da solo.

Non ignoro le ragioni del Sì. Sarebbe un problema se fallisse l’ennesimo tentativo di superare il bicameralismo perfetto. E sarebbe una ferita squassare il primo partito d’Italia. Ma vedo anche tutte le ragioni di merito che spingono a votare No. Non c’è stato alcuno spirito costituente e tanti aspetti della riforma non funzionano: il Senato ibrido, i nuovi procedimenti legislativi, la caricatura sul “governo che deve essere messo nelle condizioni di governare”.

Quindi cosa farà?

Bisogna dire ora come si eleggeranno i senatori. Impegnarsi per togliere l’immunità. Spiegare come si possono accorpare le Regioni. E soprattutto cambiare l’Italicum perché la combinazione con la riforma costituzionale non funziona. Assuma il premier un’iniziativa e non usi il Parlamento come alibi. Tocca al Pd riaprire il confronto anche con le opposizioni. E poi a me interessa una svolta, un tagliando: un cambio di politiche e classi dirigenti. Ma serve ora, non a novembre.

Il 26 luglio 1981 Berlinguer rilasciava l’intervista sulla “questione morale”. Oggi Eugenio Scalfari – l’intervistatore – scrive che “non esiste più la diversità della sinistra”. Concorda?

Penso che sia un dato di fatto. Ho riletto l’intervista: la denuncia di Berlinguer aveva un tratto di lucidità veramente impressionante. Oggi nessuno può permettersi di parlare di una diversità “antropologica” della sinistra sul piano dell’etica pubblica. Quante volte abbiamo sentito evocare, anche tra noi, le formule “La magistratura faccia il suo corso”, “non ci sono questioni penalmente rilevanti”? L’etica pubblica non si esaurisce con il codice penale.

Cosa ha sbagliato nel 2013, quando perse con Renzi?

Penso che avremmo dovuto essere più esigenti e radicali. E che la sinistra tutta avrebbe dovuto coltivare l’unità.

La sua candidatura fu “prestata” a un appartato politico ritenuto fallimentare, o così è stata percepita.

In parte fu così e si trattava di un giudizio che nasceva da limiti e errori veri, ma che aveva anche qualcosa di ingeneroso.

Avrebbe dovuto “rottamare” anche lei?

Non è il mio linguaggio, né per le persone né per la storia. Ma in quel momento quell’idea penetrava anche in un pezzo ampio del nostro mondo.

Anche oggi molti antirenziani sono ritenuti “vecchi”.

Non mi addormento la sera pensando a Renzi, ma a come ricostruire una nuova sinistra, dentro e fuori il Pd.

Lei su Facebook è come Gianni Morandi… risponde con gentilezza a tutti, anche a chi la insulta. Nella stagione dei Trump e dei Salvini, crede che la mitezza paghi?

Costa fatica, ma è efficace. Rispondo pure ai commenti più aggressivi, ma se lo fai in modo civile anche il tuo interlocutore cambia registro. Abbiamo una responsabilità: ricostruire il linguaggio di un dibattito pubblico che possa aiutare in un tempo complicato.

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