Edmondo Berselli, un po’ di storia alle spalle e un po’ di intelligenza e d’umanità davanti

29 Maggio 2017

 

Il destino dei giornalisti è di essere effimeri come quello che raccontano. Sono condannati a vivere e lavorare in un eterno presente, a compensare con la ricerca di visibilità quella costante consapevolezza dell’oblio imminente. Ci sono alcuni – parecchi, in Italia decisamente troppi – che cercano di sfuggire a questa condanna che si sono scelti percorrendo vie laterali, pubblicando qualche libro (spesso anch’esso dalla vita breve) o inseguendo il miraggio della letteratura, scelta quest’ultima che di solito rende giornalisti peggiori.

Quando Marzia mi ha chiesto di partecipare a una delle iniziative che organizza per ricordare suo marito Edmondo Berselli scomparso nel 2010 ho capito che avrei dovuto confrontarmi con questa difficoltà dei giornalisti, anche dei più illustri commentatori, di rimanere interessanti e utili anche nella lunga distanza. Io Edmondo Berselli non posso dire di averlo conosciuto davvero: sono modenese (anche se, da molti punti di vista, meno modenese e meno emiliano di lui), l’ho incrociato un paio di volte, una di queste in un seggio elettorale e mi piace pensare che non sia stata una coincidenza, visto quanto la sua vita è stata intrecciata alla dimensione pubblica della democrazia; gli ho chiesto consigli, ho perfino affidato al suo portiere la mia tesi di laurea triennale e chissà se mai gliel’ha consegnata. Per me, insomma, Berselli era soprattutto una firma, uno che leggevo pensando che avrei voluto scrivere così ma, soprattutto, capire così l’Italia, la politica, l’economia ma anche – e forse è questa la cosa che più gli invidiavo, un modo consapevole e non provinciale di avere solide radici  – Modena e l’Emilia.

Ho quindi iniziato a rileggere un po’ di articoli nel sito che Marzia cura con tenacia da anni, www.edmondoberselli.it, e ho tirato giù dalla libreria i libri. Ricordo abbastanza bene dov’ero e cosa facevo con ognuno di loro. La carriera di editorialista e commentatore di Berselli ha coinciso con la traiettoria del bipolarismo italiano, Edmondo ha raccontato un’Italia berlusconiana e anti-berlusconiana che (forse) non esiste più. Eppure nei suoi saggi e nei suoi articoli c’è ancora molto di utile.

Da quarant’anni in troppi cedono alla tentazione di immaginare “cosa avrebbe detto oggi Pier Paolo Pasolini di Renzi, di Facebook, di Fedez col Rolex…”. Quindi non voglio ora azzardarmi a prevedere cosa scriverebbe oggi Berselli. Mi sembra più interessante ricordare alcune sue intuizioni sulle attitudini degli italiani verso la politica, non commenti alla cronaca ma una disamina di certi caratteri nazionali. Spesso le conclusioni di Edmondo, anche rilette oggi, risultano contro-intuitive, come amano dire gli scienziati sociali. E dunque utili.

 

Qualunquisti ma non troppo

Nel 2001, l’anno primo del nuovo regime berlusconiano, quello del trionfo di Silvio Berlusconi e di Forza Italia con la sinistra annichilita, Berselli scrive sul Mulino un articolo sul qualunquismo. Quello che oggi chiameremmo populismo. Una certa inclinazione al “piove governo ladro” c’è da sempre nella società italiana e anche una sfiducia verso quella che allora si chiamava ancora classe dirigente o élite ma non ancora casta. Eppure nei momenti di grandi tensioni o stravolgimenti, proprio quando sembra imminente il passaggio dalla crisi “nel” sistema alla crisi “di sistema”, la risposta degli italiani è politica, non anti-politica:

Agli inizi degli anni Ottanta l’avvenimento politico principale non è tanto l’emersione della Lega di Umberto Bossi, quanto l’identificazione di una quota ampiamente maggioritaria della società italiana con le iniziative referendarie per la modificazione del sistema elettorale.

Prima nel 1991 con il referendum sulla preferenza unica e poi nel 1993 con la consultazione contro il metodo proporzionale si è formato un consenso molto ampio sul tema delle regole e della loro trasformazione.

Ciò significa che la critica condotta verso la politica trovava sbocco in strumenti dichiaratamente politico-istituzionali. Con un minimo di ottimismo, si poteva pensare perfino che lo slancio referendario contro la «Repubblica dei partiti» fosse animato almeno in parte da una coscienza «civica».

Dagli anni Settanta, tra piombo ed estremismi, fino a Tangentopoli e i girotondi. Ma anche fino all’affermazione alle elezioni del 2013 del Movimento Cinque Stelle che Edmondo non ha fatto in tempo a raccontare. Il qualunquismo si incanala nella politica e, alla fine, la migliora. O almeno la cambia:

Ammettiamo pure per un momento che ci sia una vocazione qualunquista all’interno della società italiana. C’è sicuramente chi pensa che Andreotti fosse il capo della mafia e che la storia d’Italia sia una questione di complotti e di istituzioni deviate. Ma, fuori dalla dietrologia, in tutti i momenti cruciali della transizione italiana ha prevalso un impulso essenzialmente politico.

La stessa ondata «giustizialista» era situata all’interno di una lotta politica accesa ma delineabile nel lessico della battaglia dichiaratamente politica; di più, perfino l’eventuale manipolazione della questione giudiziaria era uno strumento utilizzabile in termini politici, da una parte contro l’altra ma soprattutto dall’opinione pubblica contro gli attori di un sistema paralizzato.

I fenomeni antipolitici attecchiscono e si sviluppano proprio nelle parti d’Italia con il maggior senso civico, quelle che sono in grado di elaborare proposte magari radicali ma di sicuro alternative. Anche il Movimento Cinque Stelle nasce dalle delusioni del centrosinistra, con Beppe Grillo che prova a candidarsi alle primarie del Pd e i MeetUp che conquistano Parma, nella solida e civilizzata Emilia Romagna che Berselli incarnava.

Movimenti puramente anti-sistemici al limite dell’eversione come quello dei Forconi o frange estreme tipo Casa Pound sono così limitati da richiedere l’applicazione delle categorie del folklore più che della scienza politica. E infatti Berselli osservava che l’adesione al referendum, strumento iper-politico ma anche anti-politico per eccellenza, che scavalca le complessità della democrazia della delega, si è registrata nelle Regioni politiche e civiche, non al Sud dove “cioè proprio nelle aree più indiziabili di conformismo qualunquista e di rigetto anomico della politica in cui invece gli apparati e le consuetudini clientelari hanno fatto in qualche misura da freno a una iniziativa di cambiamento politico che colpiva e penalizzava i soggetti tradizionali di mediazione e raccolta del consenso”.

Le conclusioni di quel saggio di Berselli non indulgevano però all’ottimismo:

Sconfitto nel campo storico e reso infrequentabile nel campo politico, il qualunquismo forse assume in avvio degli anni Duemila una veste inedita: nel senso che dipinge la politica come un’arena inessenziale, scolora i conflitti a scontro di fazioni, dipinge i programmi degli schieramenti come varianti di un pensiero omologato.  Mentre sullo sfondo permangono straordinarie tensioni, svilite a guerricciole personalistiche; e interessi altrettanto conflittuali, che solo l’ottimismo di Pangloss può ridurre a giochi di ruolo fra gente che in fondo condivide, nel giardino della bipartisanship, le convinzioni generali, gli stereotipi formali, le insignificanze della politica come elementi di un auspicato fair play, non importa se ipocrita, e non importa nemmeno se continuamente infranto.

Quelle tensioni sono state ulteriormente nascoste e la politica dei partiti è diventata ancora meno essenziale, agli occhi di molti. Ma il Movimento che si è incaricato di rappresentare le istanze qualunquiste, pur sempre nel rispetto delle dinamiche costituzionali (in coerenza con l’analisi di Berselli),  ha assunto una dimensione tale che presto potrebbe diventare addirittura forza di governo ed è già consolidata tanto in Parlamento quando nei Comuni.

Quando la minoranza della protesta diventa maggioranza relativa non può più usare l’arma retorica di presentare le politiche di governo come “ varianti di un pensiero omologato”, perché se il qualunquismo va al governo deve smettere di essere qualunquista, se vuole rispettare le regole del gioco. Oppure –  come ricorda un bel libro di Manuel Anselmi sul populismo – può scegliere di istituzionalizzare il populismo, cambiando la natura stessa della democrazia. Se Berselli aveva ragione – e finora l’ha avuta – possiamo aspettarci che i Cinque Stelle si muovano in continuità, cioè istituzionalizzando la protesta invece che lasciare che questa travolga le istituzioni.

Forse la storia avrebbe preso tutta un’altra piega se quelli del Pd avessero seguito le indicazioni che Berselli dava in una sua rubrica sull’espresso il 17 luglio del 2009, intitolata Beppe Grillo e il re nudo. Era ancora l’alba del Movimento Cinque Stelle, nessuno lo prendeva sul serio. E l’idea di Grillo di candidarsi alle primarie del Pd era sembrata una provocazione oltraggiosa, che sporcava la politica vera con la satira qualunquista. Berselli, invece, auspicava che i vertici del Partito democratico accettassero la sfida:

È un’ottima notizia che Beppe Grillo si sia candidato, con le sue maniere scandalistiche, alle primarie del Pd. Così com’era apparsa un’altra eccellente notizia la candidatura del ‘terzo uomo’ Ignazio Marino. Questo perché il Partito democratico, di qui a ottobre e comunque per il futuro, ha un disperato bisogno di rientrare dalla realtà virtuale alla realtà reale. Finché Marino parla di laicità, nessuno può misurarne lo spessore effettivamente politico e la capacità reale di aggregare consenso. Si tratta di un fenomeno etico-mediatico.

Così come quando parlano i ‘giovani’ del Pd, nessuno è in grado di valutare l’effettiva qualità politica delle loro posizioni. Le parole di Debora Serracchiani e la prosa dell’emergente Giuseppe Civati, a un esame disincantato, sono ancora intrisi di politichese, e in ogni caso rappresentano il segnale che la preoccupazione fondamentale del Pd, fra giovani e vecchi, è la costituzione del partito: tradotto in termini volgari, l’occupazione e l’organizzazione di spazi di potere.

Niente di male, la politica è anche questo. Ma ogni posizione va portata dentro la realtà vera. Cioè va misurata. Altrimenti rimane un bluff. La candidatura di Beppe Grillo inserisce un primo elemento di verità perché costringe a rivelare il bizantinismo dello statuto del Pd; ne inserisce un secondo, molto più forte, perché se effettivamente colui che i telegiornali di regime chiamano “il comico genovese” parteciperà alle primarie di ottobre, avremo la possibilità di conoscere la sua consistenza effettiva, numerica, quantificabile, tutta al di là dell’alone mediatico dei blog, dei Vaffa Day, del facile consenso degli ‘indignati’.

Sappiamo come è finita, con l’ormai celebre battuta di Piero Fassino: “Se Grillo vuol fare politica, fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende”.

 

Nostalgia per i sinistrati  

Gran parte delle energie di Edmondo negli ultimi anni della sua vita, prima che la malattia lo spingesse a riflessioni più cupe, sono state dedicate alla fine di una certa sinistra. La cui crisi, in parte frutto di scelte tanto precise quanto sbagliate dei leader, ha lasciato spazio prima a una destra che abusava dell’aggettivo “moderata” e poi, appunto, al qualunquismo populista. Per spiegare il disastro elettorale e culturale del 2008, quella specie di suicidio che ha segnato il debutto del Partito democratico come forma contemporanea del centrosinistra, Berselli ha scritto molto. Anche un libro, nel suo stile più fintamente scanzonato che usava lontano dalle colonne dell’Espresso e del Mulino: “I sinistrati” (ma il titolo di lavoro è stato fino all’ultimo “I sinistronzi”)

Noi della sinistra non ufficiale siamo piuttosto eccentrici. Tutti marginali, nessuno omologato. E capirai: dato che sono cadute le ideologie, come dicono quelli dei talk show, non crediamo in niente, e quindi ognuno di noi crede in una sa pirlata particolare ed esclusiva. Sicché, quando Prodi prova a fare del modello emiliano un paradigma per l’intera Italia contemporanea, noi ci caschiamo.

La storia di come è successo che due mondi opposti si sono incontrati è lunga e sorprendente, Berselli la ricostruisce come soltanto un emiliano può fare, uno che ha sempre sperimentato i contorsionismi di chi per tutta la prima Repubblica si è sforzato di votare a sinistra schivando l’imbarazzo di sostenere il Pci, soprattutto quando era più filo-sovietico.

Sia ben chiaro che noi sinistri non eravamo tutti comunisti. Neanche per sogno. Anzi, molti di noi hanno passato una buona parte della loro vita a cercare di evitare due insidie fondamentali. Insidia numero uno: votare per la Democrazia cristiana; insidia numero due: votare per il Partito comunista.

Per ottenere questo risultato in fondo semplice, alcuni hanno fatto di tutto, scegliendo le vie più complicate: hanno votato per i radicali, per l’ultrasinistra, qualsiasi forma avesse, per il Psiup, altrimenti detto “Partito scomparso in un pomeriggio” dopo una catastrofe elettorale, per il Pdup, anche se faceva ridere pensare all’unità proletaria mentre l’immaginario di massa degli anni Settanta era occupato essenzialmente dall’idea di evitare la prole, altro che diventare proletari, cioè strani soldati metropolitani armati con martelli pneumatici, attrezzi pesantissimi, masse ferrate e seguiti idealmente da una caterva di figli laceri che aspettano a casa tra pianti e urla. E poi per i repubblicani di La Malga, per i socialisti di Craxi.

Qualsiasi cosa, qualsiasi partito, qualsiasi artificio pur di non cadere nelle tenere grinfie, e vellutate, della Dc, e dentro l’organizzazione tetragona del Pci.

Poi succede che comunisti e democristiani si ritrovano insieme, grazie alla caduta del muro di Berlino, certo, ma anche grazie al pragmatismo molto emiliano di un perfetto uomo di sintesi come Romano Prodi. E allora nasce l’Ulivo, che poi diventerà il Partito democratico.

Solo che finché si chiama Ulivo si vince, in modo un po’ sconclusionato, con i cespugli che corrodono le radici di quella nobile pianta, ma è senza dubbio alcuno un’alleanza e un governo di centrosinistra. Poi arriva Walter Veltroni, quello che conduce la campagna elettorale contro “il principale esponente dello schieramento a noi avverso”, per sfuggire all’antiberlusconismo, quello della “vocazione maggioritaria”.

Una vocazione che è soltanto una velleità, perché quando il Pd prova a diventare maggioritario si scopre minoritario. Walter Veltroni scarica tutti i partiti alleati, tranne l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Forte di questo splendido isolamento, Veltroni ottiene un solo risultato per il quale sarà davvero ricordato: consegna l’Italia a Silvio Berlusconi per il tempo necessario a portare il Paese a un passo dal default morale e finanziario, nel 2011.

Scrive Berselli il 5 giugno del 2008 sul Mulino:

Secondo una lettura in positivo di questo esito, l’infinita transizione italiana ha raggiunto quindi una prima tappa. In effetti la semplificazione della rappresentanza parlamentare è stata fortissima, e nonostante una legge elettorale di persistente cattiva qualità si è determinata una chiara maggioranza nel Parlamento. Purtroppo per il centrosinistra, si tratta di una chiara maggioranza di destra. (…)  

Oggi il centro e la sinistra riformista, vale a dire il perimetro delle forze politiche su cui si è basato l’equilibrio politico della Repubblica italiana a partire dai primi anni Sessanta, rappresentano una entità minoritaria. La razionalizzazione ha avuto luogo, ma gli effetti non sono stati quelli attesi dai promotori del Partito democratico.

Una razionalizzazione che, in fondo, piaceva soltanto ai giornali che predicavano un “terzismo” tra i due poli e al polo che da quella semplificazione ci guadagnava: la destra. Oggi, nel pieno del renzismo, sembra quasi una bestemmia. Ma in un Paese che ha da sempre una maggioranza moderata – dove l’unica accezione sensata del termine è “non di sinistra” – soltanto aggregando tutti i cespugli il tronco dell’Ulivo poteva sperare di stagliarsi nella pianura berlusconiana delle partite Iva e dei nordisti inferociti, per non parlare del sud, eternamente uguale e clientelare.

Poiché la competitività elettorale del centrosinistra dipendeva, alla fine dei conti, dalla possibilità di unire non solo tatticamente la sinistra democristiana e gli eredi del principale troncone del Pci, la questione effettivamente strategica consisteva nell’individuare un punto di equilibrio in grado da fungere da fulcro di una mediazione possibile; e da un’immagine, un volto da esporre in pubblico come ritratto della sintesi avvenuta fra le due vecchie subculture politiche.

E il punto di equilibrio aveva un nome e un cognome: Romano Prodi. Anche il centrosinistra si è scoperto, contro ogni aspettativa, un progetto politico personale. Non un partito privato, come Forza Italia, ma logorato quel simbolo di unità, i “sinistrati” hanno capito che c’erano soltanto due modi per ritrovarsi in maggioranza a livello nazionale: governare con la destra (Monti, Letta, Renzi) e diventare di destra (Renzi, dall’abolizione dell’articolo 18 e dell’Imu ai finanziamenti alle imprese e a quel messaggio neanche troppo subliminale che “arricchirsi è glorioso”).

L’articolo di Berselli si concludeva così:

Occorrerà vedere se il Partito democratico è in grado di ripartire. Se i suoi membri punteranno sulla costruzione paziente di un partito vero. Se affioreranno o no nostalgie per le vecchie identità e le vecchie appartenenze.

Se qualcuno si prenderà l’impegno di delineare una cultura unificante, che al momento non esiste. Se ci sarà la capacità di fare leva tra le contraddizioni implicite nella coalizione di Berlusconi. Come si vede, i se sono numerosi e l’elenco potrebbe continuare. Per ora, il Pd assomiglia a un partito ipotetico.

Le nostalgie sono affiorate, ma sono anche state espulse. L’appartenenza è diventata opinione, più volatile ma anche più facile da conquistare, la cultura unificante è diventata quella melassa che oggi tiene insieme il Pd, poca sinistra, un po’ di destra e molto TINA (There is no alternative), mentre le contraddizioni interne al berlusconismo sono state affrontate assorbendole, il suo programma è stato neutralizzato realizzandolo.  E il Pd è rimasto un partito ipotetico, ma un’ipotesi del terzo tipo. Quello che indica “l’impossibilità nel passato”. Senza più neanche la velleità di immaginare un futuro. E viene da citare Giorgio Gaber:

Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come, più di sé stesso. Era come due persone in una.

Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra, il senso di appartenenza a una razza, che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita.

No, niente rimpianti. Forse anche allora molti, avevano aperto le ali, senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.

E’ anche la descrizione del Pd.

 

Non si può essere di sinistra a Capalbio

L’assenza della sinistra non è soltanto una questione sentimentale per chi di sinistra ci è nato. E’ un disastro per chi della sinistra avrebbe bisogno.

Già nel 1993, sul Mulino, Edmondo Berselli coglieva alcuni problemi strutturali nel rapporto tra chi ha e chi non ha nella società italiana. L’articolo è raccolto nel volume “L’Italia nonostante tutto” con il titolo “Gli esorcismi della solidarietà” e contesta l’uso e l’abuso di una parola che poi, per la verità, non è più stata così inflazionata. Anzi, è praticamente scomparsa ora che siamo circondati da migliaia di persone che vi si potrebbero appellare, tra migranti e nuovi poveri. Sui giornali ricorre giusto in un contesto di dibattito europeo, quando l’Italia o altri Paesi del Sud la invocano per chiedere più deficit o più risorse.

Nel 1993 Berselli scriveva:

C’è un brusio vagamente «cattolico», comunitario, quasi ecclesiale, nella parola solidarietà, al punto che risulta suggestivamente ironico che il termine sia divenuto l’ultima bandiera dei partiti ex comunisti o ancora comunisti e comunque «di sinistra». Ma, se è lecito opporre retorica a retorica, questa solidarietà secolarizzata, che viene cristallizzata nelle pieghe indurite dello stato sociale, è in realtà la parodia di una solidarietà autentica.

L’atteggiamento solidale presupporrebbe una vicinanza concreta fra le persone, un faccia a faccia fra chi dà e chi riceve. Folle di professionisti in prestigiose località di villeggiatura, che ingorgano di fuoristrada le vie d’accesso alla preziosa località di villeggiatura, possono dirsi fautori della solidarietà perché pagano le tasse, se le pagano, e magari votano a sinistra? Si può parlare di solidarietà sdraiati sulla propria barca a Capalbio?

Abbiamo visto l’estate scorsa che la risposta è No. Che dalla sdraio di Capalbio la solidarietà è impresa complessa. E tutti i villeggianti – tra i quali c’è una percentuale non irrilevante degli editorialisti della stampa progressista e i rispettivi parlamentari di sinistra – si sono ribellati contro l’arrivo di 50 migranti, che poi alla fine si sono rivelati 12. C’erano moltissime ragioni, tecniche, organizzative, era un protesta argomentata, non “di pancia” come si ama dire oggi. Alla fine i migranti sono arrivati, non c’è stato alcun trauma. Ma la sinistra ha perso un’altra occasione per dimostrarsi di essere all’altezza dei tempi.

Una delle ragioni di questo fallimento – non solo a Capalbio – è di aver creduto che ci si potesse limitare a quella che Berselli definisce una solidarietà “orizzontale”, priva di qualsiasi impegno vincolante. Ecco come la definiva, sempre nell’articolo del 1993:

Si versa il dovuto allo Stato, e quello provveda a mantenere i disgraziati che non hanno di che vivere. Loro, i disgraziati, altrimenti definiti con degnata magnanimità «i più deboli», facciano però il piacere di non disturbare. Il massimo di solidarietà espressa a parole consiste insomma in una meccanizzazione redistributiva, macchinosa e impegnativa nelle procedure ma assolutamente disimpegnata sotto il profilo del coinvolgimento dei singoli.

Non si vede con chiarezza in che cosa consista il valore umano o spirituale dell’accettare un prelievo fiscale da destinare alla redistribuzione. Lo si potrebbe accettare anche per motivi assai meno sentimentali e più «egoisti», ad esempio per uno striminzito calcolo di convenienza: è interesse di molti, infatti, che il disagio e l’infelicità di alcuni non turbino l’agiatezza soddisfatta di tutti gli altri. E quali sono le ragioni che inducono i paesi sviluppati a inviare dollari nel Terzo Mondo? Sono tutte riassumibili sotto la voce della generosità?

Negli anni seguenti, fino a oggi, si è poi assistito a un esito paradossale dell’affidarsi a questa “solidarietà orizzontale” per evitare forme più impegnative di condivisione: oggi l’Italia è praticamente l’unico Paese Occidentale in cui la disuguaglianza tra i redditi disponibili aumenta quando viene misurata dopo l’intervento dello Stato, tra sussidi, detrazioni fiscali, incentivi. La solidarietà orizzontale, oggi, redistribuisce dal basso verso l’alto.

 

Redistribuire la povertà

Questi temi, della redistribuzione pensata non come strumento di politica economica in un’ottica di massimizzazione dell’efficienza ma in quanto condivisione, strumento di coesione sociale, è al centro delle riflessioni purtroppo finali di Edmondo in L’Economia giusta, il suo libro breve e denso uscito nel 2010 dopo la sua morte, avvenuta l’11 aprile.

In quel libro ci sono molte intuizioni, quella fondamentale è che la crisi è il prodotto di una bancarotta intellettuale almeno quanto delle varie bancarotte finanziarie. Berselli apre il volume con Karl Marx e Papa Leone XIII, passa in rassegna le grandi correnti di pensiero economico del Novecento, arriva fino a Tony Judt e a Serge Latouche per arrivare alla conclusione che non ci sono ricette facili da applicare, che a destra come a sinistra c’è un inquietante vuoto culturale.

Teniamo presente il momento in cui Berselli scrive: la grande crisi che sembrava solo finanziaria e solo americana, scoppiata negli Usa nel 2008, è arrivata in Italia nel 2009, con il Pil che è crollato del 5,4 per cento e l’industria sprofondata. In quel momento era ancora idea prevalente che si trattasse di un episodio congiunturale, che fosse questione di poco e avremmo recuperato quella traiettoria di crescita, lenta e stentata ma costante, che si era così bruscamente interrotta. Sono passati otto anni e la nostra industria è ancora 25 punti sotto il livello del 2007 che forse non rivedremo mai.

Gran parte del dibattito, in quella fase iniziale della Grande recessione, si era concentrato sugli eccessi della finanza, come se l’economia mondiale fosse rimasta vittima dei troppi figli di Gordon Gekko cresciuti applicando un po’ troppo alla lettera le massime del film Wall Street, a cominciare da “Greed is good”, l’avidità è giusta. Berselli invece salta direttamente al nucleo della questione, in totale coerenza con l’approccio che aveva seguito già nel 1993, con quell’articolo citato prima che entrava in una dura polemica con quei mondi soprattutto cattolici sempre pronti ad attribuire qualunque stortura sociale all’avidità di pochi ossessionati dal profitto (anche papa Francesco, innovativo su tanti aspetti, si è subito abbandonato a questa retorica).

La sfida che ci attende, scrive Berselli in L’economia giusta, non è la discrepanza tra i ritmi di crescita tra chi sta sopra e chi sta sotto, fenomeno osservato tra gli anni Ottanta e Novanta che ha trasformato il consumo in consumismo e il benessere in edonismo. Al contrario. La sfida che attende l’Occidente – e, come abbiamo poi scoperto dopo, l’Italia soprattutto – è quella di “redistribuire la povertà”.

E’  molto probabile che la nuova sintesi debba fare i conti con un aumento della povertà o perlomeno con una condizione generale della società in cui non sarà possibile mantenere tutti gli istituti e gli strumenti del welfare. Ovvero in cui la disponibilità di ricchezza individuale sia insufficiente a garantire i livelli precedenti di consumo. Mentre si sono già assottigliate le riserve familiari di risparmio. Sono tutte dinamiche riassumibili in una sola e raggelante parola: impoverimento.

Ma allora, siamo disposti e sono disposte le società occidentali a subire una decurtazione probabilmente sensibile del proprio reddito?

Occorre accingerci a costruire una cultura, forse non della povertà, bensì della minore ricchezza. Di un benessere più limitato, e sapendo che questo minor benessere si ripercuoterà su ogni aspetto della nostra vita.

Sono parole poco piacevoli da leggere, che forse qualcuno ha scambiato per un pessimismo comprensibile e dunque perdonabile in un uomo che sa di non avere più un futuro davanti. Forse c’era anche quell’aspetto. Nello stesso anno moriva anche il grande storico Tony Judt, che Berselli cita nell’Economia giusta, e anche lui si congedava con un libro breve e appassionato sulle risposte da dare alle insicurezze dei deboli, quelle che dovrebbero essere la priorità di una sinistra che invece è stata troppo concentrata a far crescere la torta rinunciando agli strumento che consentono di variare la dimensione delle fette. Questi due grandi intellettuali, in punto di morte, hanno intuito quel senso di fragilità che avrebbe poi generato la paura, e dalla paura la violenza, per fortuna quasi sempre soltanto verbale, dei movimenti che oggi classifichiamo come populisti. Che si alimentano di quelle insicurezze a cui la sinistra non può e forse neppure vuole offrire risposte.

Negli anni trascorsi dalla morte di Edmondo, molti economisti e sociologi hanno sviluppato quelle intuizioni. Si è aperto un dibattito importante sulla stagnazione secolare, che mette in discussione i fondamenti stessi della macro-economia, si inizia a discutere di un “futuro senza lavoro” per colpa dell’automazione, e quindi di strumenti come il reddito minimo che devono arginarne le conseguenze, è diventata una formula alla moda quella del “less is more” mentre un altro autore del Mulino, Paolo Legrenzi, ha indicato quella che forse è la sintesi migliore: soltanto la frugalità, che è la  capacità di vivere con l’essenziale senza sentire la mancanza del resto, permette di affrontare gli anni che ci attendono.

Dovremo adattarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma dovremo farci l’abitudine. Se il mondo occidentale andrà più piano, anche tutti noi dovremo rallentare. Proviamoci, con un po’ di storia alle spalle, con un po’ di intelligenza e d’umanità davanti.

Così si congeda Edmondo Berselli. Con un po’ di storia alle spalle e un po’ di intelligenza e d’umanità davanti. Quella che i suoi lettori possono scoprire nelle sue pagine.

 

Ti potrebbero interessare

I commenti a questo articolo sono attualmente chiusi.