L’Unione europea vuole che Tripoli fermi i barconi in partenza per le coste dell’Italia. E per farlo, punta ad accelerare l’addestramento della Guardia costiera libica e a creare un centro di coordinamento per le operazioni di salvataggio, analogo al Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo gestito in Italia dalla Guardia Costiera. È quanto scritto in due bozze preparative alla dichiarazione finale del Summit di La Valletta stilate dalle autorità di Malta, Paese a cui spetta la presidenza di turno dell’Unione. Le due bozze sono il risultato di queste ultime ore di negoziazioni prima dell’avvio del summit del 3 febbraio a cui parteciperanno i capi di Stato o di governo dell’Europa a 28 e che avrà all’ordine del giorno fermare gli sbarchi provenienti dalla Libia.

“Addestramento, equipaggiamento e supporto alla Guardia costiera libica” è la priorità stabilita nella “bozza della dichiarazione di Malta dei membri del Consiglio europeo sugli aspetti esterni della migrazione: indirizzamento per la rotta del Mediterraneo Centrale”. È la versione zero, datata primo febbraio, del documento con cui si chiuderà il summit. L’azione maltese ha come obiettivo fare in modo che le autorità libiche abbiano “il controllo sui confini di terra e di mare per combattere il transito e le attività di traffico”. Chi formerà in particolare la Guardia costiera libica? Oltre alle forze dell’Operazione Sophia e alla nuova Frontex, che hanno già cominciato alla fine dello scorso ottobre, il documento fa riferimento a Seahorse Mediterraneo Network, un progetto di cui ormai si sono perse le tracce.

L’avventura di Seahorse nasce su spinta della Guardia Civil spagnola nel 2006. Allora era la rotta dell’Africa occidentale a preoccupare l’Europa. E così venne creato questo dispositivo per condividere dati e intercettare navi con migranti irregolari: le solite formule dei documenti made in Bruxelles per fermare i flussi. Fatto sta che il progetto funziona e le rotte dall’Africa occidentale si spostano altrove. Così, si pensa di replicare il modello nel Mediterraneo. Il giorno del lancio è il 19 settembre 2013: “Approvato dalla Commissione Europea, il progetto si svilupperà nei prossimi tre anni, in collaborazione con Spagna, Italia, Francia, Malta, Portogallo, Cipro, Grecia e Libia, mentre per il 2014 è prevista l’adesione di Algeria, Tunisia ed Egitto”, scrive l’Ansa nel suo lancio. Da allora però non è accaduto nulla. Il Commissario Dimitri Avramopoulos risponde così ad un’interrogazione dell’europarlamentare che gli chiedeva conto del progetto: “Nonostante i ripetuti tentativi, per il momento Algeria, Tunisia ed Egitto non si sono voluti impegnare nel progetto”. Era il 23 ottobre 2015.

Gli stessi funzionari maltesi sono consapevoli che Seahorse non ha ingranato e prendono tempo. Lo scrivono nel primo dei documenti preparativi, intitolato “Summit Malta – Aspetti esterni della migrazione”: Seahorse Mediterraneo deve entrare in funzione “entro la primavera del 2017”. è previsto anche un finanziamento da 1,3 milioni di euro. Almeno per il momento. Perché si dovrebbe riuscire laddove fino adesso si è fallito? Forse i continui viaggi delle autorità italiane in Tunisia (prima il ministro dell’Interno Marco Minniti il 3 gennaio, poi quello degli Esteri Angelino Alfano il 19 gennaio e ancora il sottosegretario Vincenzo Amendola il 31 gennaio) hanno avuto tra gli obiettivi proprio quello di rendere attiva almeno la partecipazione della Tunisia, altro Paese spesso chiamato in causa nelle due bozze del dichiarazione finale, specialmente per “ridurre la pressione sui confini di terra della Libia ”, come si legge nel testo del 1 febbraio.

C’è poi un altro elemento controverso, a tal punto che nel giro di 24 ore è scomparso dalle bozze della dichiarazione finale del Summit di Malta. Si tratta del riferimento alla “lista europea di Paesi di origine sicura” e alla lista dei “Paesi terzi sicuri”. Sono due documenti di cui si discute da tempo e in cui, nelle intenzioni della Commissione, andranno inseriti quei Paesi in cui rimpatriare i migranti. Il problema è che il principio di “sicuro” sul piano giuridico è molto scivoloso: la cancelliera Angela Merkel è stata molto criticata quando a dicembre ha cominciato il piano di rimpatrio di 100mila afghani. Da tempo l’Europa dice di volersi dare una linea unica su questo tema, ma finora prevalgono i particolarismi. E questo rischia di ostacolare l'”Action plan europeo sui rimpatri“, la road map per portare fuori dall’Ue chi non ha diritto di asilo, citata anche nelle bozze preparative per il Summit.

Tutto il piano dell’Ue in Libia sarà finanziato attraverso strumenti già esistenti. Il principale è il Trust Fund per l’emergenza in Africa (EUTF) costituito proprio al termine del primo summit a La Valletta, nel 2015, nato però con lo scopo di “combattere alla radice le cause dell’immigrazione”. A questo si aggiunge la European Neighbourhood Initiative, un altro fondo per la cooperazione con i Paesi extra UE.

Il pericolo all’orizzonte è che per l’ennesima volta questo piano sia una velleitaria dichiarazione di intenti. Sono previste infatti operazioni che richiedono un’assistenza anche a terra dei libici. Ma chi può garantire che gli accordi con il governo di Serraj tengano?

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