Non penso che si sarebbe verificato il contrario, ovvero che una donna delle istituzioni a livello apicale, durante un evento pubblico, esprimesse il suo disprezzo per l’operato culturale di un collega, ma la storia non si fa con le ipotesi. Dunque, nella realtà, abbiamo un eminente esponente del patriarcato di sinistra che sceglie due parole molto significative, “orribile” e “abominevole”, per stigmatizzare l’uso del femminile (previsto sin dalle elementari nella lingua italiana) per vocaboli che indicano ruoli di rappresentanza: sindaca e ministra.

Ruoli relativamente nuovi per le donne, funzioni di potere, mansioni che rimandano simbolicamente all’autorevolezza. Autorevolezza lontana dall’essere ritenuta legittima da molte persone, se per nominare questi incarichi è necessario cancellare il corpo che li incarna. Solo maschilizzandole per definirle possiamo sopportare che le donne accedano a posizioni di potere?

La registrazione documenta il tono stentoreo del Presidente emerito mentre si rivolge alla neo ministra Fedeli: “Valeria non si dorrà se insisto in una licenza, quella di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell’orribile appellativo di ministra o in quello abominevole di sindaca”.

Giorgio Napolitano è un anziano, potente, colto comunista che ha passato la sua esistenza nella politica, e le sue parole sono condivise ancora da una grande parte di uomini (e donne) di ogni cultura e ideologia, come del resto testimonia il fragoroso applauso alla sua esternazione. Non dovrebbe passare inosservato il passaggio sui dignitosi vocaboli: non sarà che le parole sono degne solo quando sono declinate al maschile?

Il catalogo della detrazione è variegato: da chi sostiene che usare il femminile sia una questione di poco conto (e di solito questo gruppo rifiuta anche il cognome materno, parimenti una piccolezza), a chi ne fa una questione di sonorità (“che brutta parola ministra”) passando per chi non vede il problema (“c’è ben altro su cui concentrarsi”).

Dal mio punto di vista ciò che emerge è che si sta resistendo ad un cambiamento epocale: come ha bene detto la presidente Boldrini, si tratta di democrazia.

Essere nominate, avere la possibilità di dirsi è il primo elemento di visibilità, di esistenza. Lo hanno sempre sottolineato i movimenti Lgbt come quelli contro l’apartheid. Perché se non si esiste, a cominciare dal linguaggio, come si possono assolvere doveri e reclamare diritti? Se è vero che la lingua batte dove il dente duole fare attenzione al perché si insiste a usare il maschile come genere che ingloba il femminile non è secondario: l’identità è il principio attraverso il quale si affermano le differenze. Per essere detta, e valorizzata, la differenza va nominata, anche nel discorso minuto della quotidianità, senza il quale la grande politica è poca cosa.

Nota a margine: a parte gli irriducibile razzisti non c’è stata tutta questa resistenza a cambiare linguaggio e passare da stranieri a migranti per nominare chi arriva da altrove. Invece, equamente diffusa in ogni settore politico e culturale, la strenua opposizione alla sessuazione del linguaggio continua. Si tratta, infatti, della resistenza non tanto alle parole, quando ai fatti. Un problema di democrazia, appunto.

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