In una città come Torino che dalle aree industriali dismesse ha saputo quasi solo trarre oneri di urbanizzazione da condomini e centri commerciali, appare come un miracolo che esista il Pav, parco d’arte vivente. Perché il Pav (un polmone verde di 23.000 mq) è stato ricavato proprio dalle rovine dell’ennesima fabbrica abbandonata, la Framtek, di questa che fino a poco tempo fa era la città dell’industria.

Anziché cemento al posto del cemento, erba e alberi dove un tempo ancor più lontano c’erano erba e alberi: un ritorno all’antico. Solo che qui la natura non è lasciata a sé stessa, ma indirizzata secondo un percorso in gran parte artistico. La natura qui è il contesto in cui vengono concepite opere d’arte, o con cui vengono alla luce opere d’arte. Una realizzazione unica nel suo genere. E questo grazie a una intuizione dell’allora assessore alla cultura Fiorenzo Alfieri e alla genialità dell’artista Pietro Gilardi.

In un caldo pomeriggio d’autunno, io che, colpevolmente, non lo conoscevo, sono stato a visitare il Pav sotto la guida del direttore, un entusiasta Enrico Bonanate. Il Pav oggi non è solo uno spazio che accoglie opere d’arte realizzate e lasciate in eredità da famosi artisti, fra le quali spicca Trefle, un enorme quadrifoglio di siepi, che è anche una delle opere distintive del Pav, ma anche tanto altro: una collinetta con un giardino (jardin mandala) progettato nientepopodimeno che dal famoso Gilles Clement; un principio di bosco naturale; un tappeto di erbe aromatiche; un’installazione con arnie e telecamere che controllano il viavai delle api (e conseguente produzione di miele); un orto coltivato da un gruppo di volonterosi ragazzi; un enorme forno per cuocere all’aria aperta.

Ma il Pav non è un museo en plein air, ma una realtà in eterno movimento. Qui si tengono mostre, si presentano libri, qui vengono le scolaresche per conoscere la natura e interagire con essa, il tutto nel parco o nella casa di accoglienza realizzata ovviamente con tecniche ecosostenibili.

Unica nota negativa. Negli ultimi anni, i contributi sono diminuiti di circa due terzi (la cultura in Italia continua a essere una cenerentola) e questo ha costretto la direzione del Pav a fare i salti mortali per poter mantenere le attività in essere. Anzi, esse sono addirittura aumentate.

Buona ultima, la collaborazione avviata con l’associazione ConMoi, nata nel 2015 nella stessa via del Pav, composta in parte da italiani e in parte da immigrati occupanti le palazzine dell’ex Moi (mercato ortofrutticolo all’ingrosso), realizzate a suo tempo (in tutta fretta e ora fatiscenti) per ospitare gli atleti dell’Olimpiade 2006.

ConMoi ha come scopo quello del foodsharing, del recupero e condivisione del cibo e dei prodotti alimentari che altrimenti andrebbero al macero. “Mettiamo in atto un nuovo modo di fare comunità e ci rivolgiamo a negozianti, mercati, medie e grandi strutture di distribuzione, ristoratori, associazioni e singoli cittadini, per raccogliere le eccedenze di cibo e redistribuirle nel territorio”.

Lo so, questo è un post positivo, stupirà molti dei miei lettori che leggono sempre di catastrofi accadute o da accadere. Ogni tanto, di rado, penso positivo. Ma non nominatemi, per favore, Jovanotti.

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