L’attualità politica degli ultimi giorni ha visto i principali esponenti dei maggiori movimenti d’opinione impegnati in un triste gioco a rimpiattino di accuse reciproche e speculari, tutte incentrate sull’attribuzione all’avversario d’un marchio infamante e indelebile: l’appartenenza alla “casta“. Agitata spesso pretestuosamente dalle frange più populiste del dibattito politico, sfacciatamente negata e derisa dai detentori del potere, l’espressione ha trovato la sua ragion d’essere nella distanza, reale quanto percepita, tra la dimensione privilegiata della classe politica e la qualità media della vita dei cittadini.

Da sempre presente nel linguaggio delle rivendicazioni protestatarie, essa è divenuta uno slogan politico e giornalistico centrale, ricorrente, ossessivamente adoperato fino all’abuso e all’inflazione, dopo il successo, meritato, del celebre libro­-inchiesta La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (entrambe note firme note del Corriere della Sera) edito da Rizzoli ormai quasi dieci anni or sono. Il libro è divenuto proverbiale atto di denuncia nei confronti delle innumerevoli, paradossali, sconcertanti falle del sistema politico italiano, strutturato su privilegi inverosimili, compensi sproporzionati, insensato sperpero dei soldi pubblici (celebre il caso che apre il libro riguardo una località pugliese che otteneva finanziamenti in quanto comunità montana, pur evidentemente non essendolo).

Nel libro, gli autori contrapponevano alla dissipazione irresponsabile degli ultimi anni, la rinomata sobrietà dei deputati eletti nel primo dopoguerra (si pensi a un esempio quale Giorgio La Pira). Eppure, semi e tracce della corruzione contemporanea apparirebbero già evidenti alla radice della vita parlamentare italiana. Ciò sembrano suggerire due romanzi brevi composti tra fine Ottocento e inizio Novecento, pubblicati dalla casa editrice Studio Garamond, I Misteri di Montecitorio di Ettore Socci (1899) e Casta diva di Girolamo Rovetta (1903): due testi non memorabili dal punto di vista letterario, ma molto interessanti per gettare uno sguardo sulle radici di quella che oggi chiamiamo correntemente “casta”.

Partiamo dal secondo dei testi menzionati: in Casta diva, al di là del bisticcio belliniano del titolo, Rovetta descrive, in uno stile sospeso tra il gusto decadente della scapigliatura e l’urgenza nascente di uno sguardo pre­verista, la figura di Gerardo Parvis, giovane ministro delle Poste e Telegrafi. Sfiancato dalla selva di ostacoli burocratici che paralizzano la sua azione politica, disgustato dall’opportunismo dei colleghi, Parvis si dimette clamorosamente. Sarà proprio l’uscita dalla dimensione chiusa del parlamento che gli consentirà di scoprire gli abissi di miseria e ignoranza in cui il popolo italiano versava all’epoca. Risuona profetico il fremito sdegnoso con cui il protagonista si distacca dalla vita parlamentare: “A che cosa siam ridotti noi? A un branco di pecore, di nullità, gonfi di quattrini, di boria e d’ignoranza”.

Più maturo e convincente ci sembra il racconto di Ettore Socci, in cui viene delineata, con spietato cinismo, la parabola di un giovane avvocato idealista, che entra pieno di buona volontà in parlamento, ma viene presto corrotto e demolito nella sua reputazione: rimarrà vittima, infatti, del meccanismo perverso posto in atto da un astuto veterano dei banchi di Montecitorio. Interessante notare come Socci sia stato anch’egli deputato in quegli anni: il romanzo dunque assume i contorni di una testimonianza veritiera, dall’interno del nascente sistema.

Ancora più interessante notare come nella prefazione all’edizione del 1899 (solo due anni dopo la stesura del libro) l’autore già denoti una corruzione crescente dei costumi: “Quante e quante cose non sono avvenute, dal giorno che vide la luce questo modesto lavoro? Le brutture di allora sono zuccherini a paragone di quelle che innanzi ai nostri occhi si sono impunemente compiute“. Per concludere, altrettanto significativo un dialogo che il giovane deputato, protagonista della vicenda, intesse con un un più anziano collega: “Ma dunque in Italia? […] Si vive di favoritismi […] E la legge? […] È fatta per i minchioni, come lo fu sempre”. Non era ancora iniziato il “secolo breve”.

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