di Davide Bonsignorio 

Un’interessante sentenza della Corte di Appello di Milano (n. 579 del 20 maggio 2016) si è pronunciata sul caso di una ragazza italo-egiziana di religione musulmana non ammessa a fare la hostess ad una fiera di calzature perché aveva opposto rifiuto a lavorare senza l’hijab (il velo che copre il capo lasciando peraltro visibile il volto).

L’agenzia che l’aveva sezionata si era giustificata affermando che l’uso del velo non era compatibile con le indicazioni fornite dal cliente in materia di abbigliamento ed aspetto delle candidate (veniva indicato che le hostess, tra le altre caratteristiche, avrebbero dovuto avere “preferibilmente… capelli lunghi, sciolti e vaporosi”); per contro la ragazza aveva obiettato che, non essendo essenziale che i capelli fossero scoperti per un lavoro di volantinaggio, il problema avrebbe potuto essere risolto abbinando il velo alla divisa prevista.

Mentre in primo grado il giudice ha ritenuto non sussistente una condotta discriminatoria, la Corte di Appello di Milano, presso cui la lavoratrice ha impugnato la sentenza, ha ribaltato la decisione, evidenziando come ai sensi della direttiva dell’Unione Europea n. 78 del 2000 e del Decreto Legislativo n. 216 del 2003, di attuazione della direttiva in Italia, qualsiasi disparità di trattamento nell’accesso al lavoro motivata da ragioni inerenti la religione, anche se attuata attraverso i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, costituisce discriminazione vietata.

A questo divieto può derogarsi infatti solo qualora la differenza di trattamento sia collegata a requisiti essenziali e determinanti per lo svolgimento dell’attività lavorativa o dell’impresa, e sia comunque proporzionata e ragionevole; nel caso di specie, a detta della Corte d’appello, questi requisiti non potevano dirsi soddisfatti, posto che l’assenza di un copricapo non poteva ritenersi un requisito essenziale di partecipazione alle selezioni per un lavoro di ricevimento visitatori e volantinaggio al punto da imporre alla lavoratrice la rinunzia ad un capo di abbigliamento connotante la sua identità religiosa. Molto probabilmente a differenti conclusioni si sarebbe giunti se, per esempio, alla lavoratrice fosse stato richiesto di reclamizzare dei prodotti cosmetici per i capelli.

La pronuncia fa un’applicazione equilibrata di un principio che pare destinato a venire in gioco con maggiore frequenza nella nostra società sempre più multietnica e multiculturale, quello del bilanciamento di contrapposte esigenze ugualmente meritevoli di tutela.

Del resto, il criterio del bilanciamento di interessi, nonché della stretta funzionalità della richiesta di un certo tipo di abbigliamento od aspetto ad oggettive esigenze produttive o di immagine aziendale ed in ogni caso del rispetto della dignità e della personalità del lavoratore sono sempre stati alla base delle decisioni giurisprudenziali sul tema dell’abbigliamento nel posto di lavoro.

Facciamo una carrellata di sentenze, talvolta molto curiose e particolari.

E’ stato ad esempio dichiarato legittimo il licenziamento della animatrice di un night club e discoteca estiva che si era rifiutata di indossare un abito a due pezzi che lasciava scoperte le spalle e l’ombelico, avendo la sentenza evidenziato come la natura della prestazione ed il contesto lavorativo rendessero legittima la richiesta di tale abbigliamento da parte del datore di lavoro.

Invece è stato dichiarato lesivo della dignità e fonte di risarcimento del danno il comportamento del dirigente di una azienda industriale che, ad una lavoratrice fatta segno di commenti sessisti da parte dei colleghi operai a causa del suo abbigliamento comprendente minigonna e scollature, anziché fare cessare le molestie verbali aveva invitato la dipendente ad adottare un abbigliamento “più consono” a tale ambiente di lavoro.

Ancora, pure in presenza di direttive dell’azienda che imponevano ai camerieri di un ristorante i capelli corti ed un taglio preferibilmente classico per conformarsi al livello del locale, è stata dichiarata illegittima la sanzione disciplinare inflitta ad un dipendente che, pur avendo la capigliatura in ordine e tagliata corta, aveva adottato un’acconciatura più moderna.

E andando avanti il giudice ha annullato la sanzione inflitta ad un addetto al reparto gastronomia di un grande supermercato, punito per essersi presentato al lavoro con la barba lunga di due giorni nonostante le direttive aziendali imponessero la rasatura quotidiana; in questi ultimi due  casi, le direttive aziendali, non precisissime nel primo caso ed invece esplicite nel secondo, sono state comunque vagliate alla luce del principio di buona fede, del necessario rispetto della dignità del lavoratore e della stretta funzionalità alla corretta esecuzione della prestazione nel contesto aziendale, essendosi quindi rilevato, nel secondo caso, come la barba lunga di pochi giorni non causasse in ogni caso rischi per l’igiene e non comportasse danno di immagine per l’azienda.

In generale potrebbe essere d’aiuto l’inserimento nel contratto di assunzione di una clausola riguardante l’abbigliamento o l’aspetto richiesti, fermo restando che anche una clausola sottoscritta dal lavoratore potrebbe essere dichiarata illegittima se lesiva della sua dignità e personalità o contraria alla buona fede.

In assenza di specifico accordo il datore di lavoro non può in ogni caso invocare l’abbigliamento normalmente adottato dalla generalità dei dipendenti per vietare l’ingresso in azienda a chi non si uniforma alla prassi (in questo senso, una pronuncia della Cassazione ha dichiarato illegittimo il divieto intimato ad un lavoratore di presentarsi sul posto di lavoro in calzoni corti, motivato dall’azienda con il fatto che tale abbigliamento confliggeva con una sorta di “dress code” spontaneamente adottato dagli altri dipendenti).

Questo non significa che le convenzioni sociali siano prive di peso, e che anche il lavoratore non debba fare uso di buon senso, come ha sperimentato un impiegato di banca sanzionato perché presentatosi al lavoro in canottiera, o un altro che, presentatosi sempre in banca vestito da sceriffo con tanto di cappello e stella sul bavero, ha visto poi confermata in Tribunale la sanzione disciplinare inflittagli dall’azienda (in realtà in questo caso più per l’insubordinazione manifestata con tale comportamento, posto che esso seguiva a diversi precedenti rimproveri del superiore).

* Giuslavorista, socio Agi (Associazione giuslavoristi italiani). Esercito la professione di avvocato dalla parte dei lavoratori e dei sindacati; ho collaborato con diverse riviste specializzate del settore. Vivo e lavoro a Milano.

Articolo Precedente

Voucher lavoro, Renzi blocca decreto con i correttivi troppo soft. “Timore di attacchi da opposizioni e sindacati”

next
Articolo Successivo

Orario di lavoro, il tribunale di Firenze condanna Unicoop: “Il tempo per indossare la tuta deve essere pagato”

next