Luigi Di Maio ha l’ambizione di fare il premier, più che legittima visto che guida il secondo (o primo?) partito italiano. Però anche il resto del Movimento Cinque Stelle deve decidere se vuole davvero governare il Paese o rimanere prigioniero di alcune ingenuità che si possono accettare da una formazione improvvisata, di novizi della politica. Non da un partito che può arrivare al governo.

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La vicenda del pranzo di Di Maio all’Ispi, l’istituto studi per la politica internazionale, è interessante in questo senso. Di Maio sta facendo lo stesso tour di presentazione che toccò a Renzi qualche anno fa (andò perfino da Angela Merkel, da sindaco di Firenze, ricordate?). E’ normale e fisiologico: tutti i soggetti, soprattutto stranieri, che devono avere rapporti con l’Italia vogliono capire se hanno davanti un’altra Marine Le Pen oppure un altro Jeremy Corbin o magari qualcosa di nuovo, un leader che sa usare le tecniche del populismo per conquistare il potere ma che non è esposto al rischio di derive estremiste. Anzi, che magari può incanalare quel disagio che in altri Paesi alimenta movimenti anti-democratici.

Ambasciate, think tank, network transatlantici di ogni genere, salotti tra politica e affari: tutti cercano di capire quanto possono fidarsi di Di Maio. Non per controllarlo o manipolarlo, ma per sapere (e riferire ai propri interlocutori) chi hanno davanti. Il pranzo di Di Maio all’Ispi si inserisce in questa logica. Niente di male, anzi, utile a tutti: agli interlocutori di Di Maio a farsi un’idea di lui, all’aspirante premier a sondare che tipo di accoglienza possono avere le sue proposte, a raccogliere spunti, a sviluppare il linguaggio e lo stile adatto ad affrontare le situazioni che sono la norma per un capo di governo.

All’Ispi il 22 aprile c’erano alcuni degli stessi protagonisti della riunione romana della Trilateral Commission la settimana prima: Carlo Secchi, che della Trilateral è il presidente italiano, Paolo Magri, direttore della Trilateral in Italia, Mario Monti, presiedente onorario della Trilateral europea, i vertici di aziende che finanziano la Trilateral (come Intesa San Paolo), il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana. Cioè le stesse persone che hanno animato l’assemblea plenaria della Trilateral a Roma, tra il 14 e il 16 aprile. Uno scandalo? Assolutamente no. L’Ispi è il migliore think tank italiano – io ho frequentato a lungo i suoi corsi, molti degli articoli dei ricercatori Ispi appaiono anche sulle pagine del Fatto Quotidiano, lì lavorano o collaborano accademici e ricercatori brillanti, anche giovani – e Di Maio ha fatto benissimo ad andarci.

Il punto è un altro: il Movimento Cinque Stelle ha montato una campagna per solleticare la propria base (o almeno la sua parte più ingenua) con una campagna contro la partecipazione dei ministri Maria Elena Boschi e Paolo Gentiloni alla riunione della Trilateral a Roma. Evento così segreto e inquietanti che i presidenti della Trilateral hanno fatto pure una conferenza stampa, i membri più autorevoli hanno fatto interviste con i giornali italiani, il programma era pubblico e così via. Ma a un pezzo del mondo grillino piace agitare il mito del complotto giudo-pluto-massonico.

Perfino il collega di direttorio di Di Maio, Roberto Fico, si è esposto addirittura dal blog di Beppe Grillo: “Il ministro Boschi convocato alla riunione dei potenti non è che il simbolo di un Governo senza autonomia, una misera pedina al servizio di interessi altri, non della volontà popolare”. Poi, dopo che è uscita la notizia del pranzo di Di Maio in Ispi, Fico ha aggiunto: “Luigi non è andato dalla commissione trilaterale è andato a parlare di immigrazione, di politiche migratorie in un istituto, l’Ispi. Non erano segreti né il pranzo né il contenuto”.

Fico dimostra così di perseverare nell’ossessione complottista. Allora proviamo a spiegargli: alla Trilateral la Boschi è andata a fare esattamente le stesse cose che Di Maio ha fatto all’Ispi. Esporre le proprie idee, raccontare cosa sta facendo e cosa vuole fare, ascoltare domande (che, in un ambiente dove la riservatezza è garantita, possono essere franche e pretendere risposte altrettanto franche) e replicare. Non c’è differenza alcuna. Funziona così dappertutto: regola Chatham House, cioè non si attribuiscono le informazioni raccolte, e scambio di idee molto diretto, per risultare utile, con la garanzia che qualche battuta o analisi puntuta non finisca virgolettata sui giornali.

Di Maio ha capito come funziona, sta imparando le regole. E come lui Virginia Raggi, la candidata sindaco di Roma. O forse Fico pensa che gli articoli positivi di Financial Times e Guardian nascano dal nulla? Bisogna seminare per raccogliere, spiegare, possibilmente in inglese. Non significa vendersi alle lobby, asservirsi a qualche cupola internazionale o rinunciare alla propria purezza. Questa piccola vicenda è utile perché ha dimostrato che continua la coesistenza di due anime nel partito fondato da Beppe Grillo. Una è pronta a governare, l’altra continua a confinarsi in quella (ridicola ma rassicurante) oasi di appassionati di scie chimiche, microchip e semplificazioni. Anche Beppe Grillo una volta prendeva a martellate i computer, poi ha iniziato a usarli e ha creato un fenomeno politico. Fico – con un pezzo non piccolo di M5S – è ancora fermo al martello.

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