La ricaduta sociale di questo 5% di detenzione femminile è molto ampia. Basti pensare che la metà di loro sono madri, spesso con figli al seguito.

La problematica della detenzione delle donne in carcere va compresa e affrontata in un’ottica culturale che riconosca la presenza di una differenza di genere e dunque di una “specificità” della detenzione femminile rispetto a quella maschile. Le modalità e le pratiche di approccio degli operatori tutti, magistrati, direttori di carcere, volontari e polizia penitenziaria, tendono a trattare i problemi e le difficoltà delle donne allo stesso modo in cui vengono trattati quelli degli uomini.

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Il carcere, così come è concepito e organizzato nella pratica, rappresenta un’istituzione totalmente maschile, come ad esempio la vita di caserma, fatta di regole rigide e predeterminate tese a contenere aggressività e violenza, in cui non vi è posto per il profilo emozionale delle donne le quali, conseguenzialmente, risultano rinchiuse non solo in un perimetro fisico, ma anche psicologico e umano, alienate dalla propria identità e diventano prigioniere del loro mondo interiore e delle dinamiche di difficile interazione. Infatti, vi è stata nel tempo una persistente difficoltà culturale ad affrontare la problematica della donna-delinquente-detenuta.

Analizzando storicamente il fenomeno, la donna deviante, che cioè contravveniva alle regole che la società (maschile) si era data, non è mai stata considerata come portatrice cosciente di ribellione, ma una “posseduta” (ad esempio strega) o una malata di mente (ad esempio isterica). Questo perché non si poteva ammettere, culturalmente, che la donna potesse coscientemente desiderare, con autonomia di scelta, di uscire dal perimetro delle regole. Infatti, già Cesare Lombroso scriveva nel suo testo del 1893 intitolato La donna delinquente, la prostituta e la donna normale: “Se la criminalità femminile è molto meno diffusa di quella maschile, dipende dal fatto che le donne sono più deboli e stupide degli uomini”.

Inoltre, la donna, tradizionalmente dedita alla maternità e alla cura, nel delinquere viene considerata colpevole non solo di fronte alle leggi scritte dagli uomini, ma anche verso la sua natura di madre degenere, provocando di conseguenza la sua emarginazione.

Le donne in carcere dovevano, dunque, venire corrette nella loro personalità più che punite, tanto che sono state affidate, dal 1863 sino alla istituzione del Corpo di polizia penitenziaria nel 1990, passando per le vigilatrici, alla custodia delle suore che impostavano la vita carceraria non tanto sulla punizione, ma sulla “correzione” dell’errore commesso, sui principi della preghiera, dei lavori di pulizia degli spazi comuni, riproducendo un modello culturale di sottomissione.

Una delle cause del disinteresse verso le donne detenute è da attribuire all’inferiorità del dato numerico delle donne presenti negli istituti di pena, attestate sia pure con qualche oscillazione sul 5% della popolazione detenuta maschile, quando le donne rappresentano oltre il 50% della popolazione libera; per questo motivo, non è possibile, o meglio non vale la pena, né impostare un trattamento ad hoc, né studiare il fenomeno.

Il dato numerico sopra riportato, non può, però, essere letto soltanto in un’ottica statistica riduttiva che lo rapporta esclusivamente alla presenza totale dei maschi detenuti; infatti, la ricaduta sociale di questo 5% circa di detenzione femminile, è molto più ampia se pensiamo che la metà di esse sono madri e alle conseguenze che può avere su una famiglia l’incarcerazione di una madre, ad esempio per i figli rimasti fuori affidati, quando presente, alla famiglia allargata oppure affidati in istituto. Per il detenuto uomo, la donna moglie o madre contribuisce al mantenimento e al sostegno della famiglia, provvedendo anche alle necessità della sua vita quotidiana in carcere (portando cibo, vestiti, biancheria pulita), accompagnando i figli alle visite. Nel caso opposto, quando è la donna a essere detenuta, questo avviene con meno frequenza e più difficoltà.

Tra le donne detenute vi sono moltissime straniere con il trauma della separazione dal contesto familiare e sociale, e dunque spesso in condizione di sofferenza psichica, spesso senza fissa dimora e senza riferimenti esterni, con poca conoscenza della lingua italiana e con una cultura di nomadismo o con un passato di tossicodipendenza. Molte di queste donne non sono soltanto criminali che hanno commesso reati, ma anche vittime di abusi o di sfruttamento.

di Marco Terreni

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