scaffale carne 675

Che mangiare ingenti quantità di carne rossa non facesse bene, lo si sapeva da tempo. È, peraltro, un precetto che si rinviene in molte religioni: basti qui ricordare il venerdì consacrato al pesce dalla religione cristiana. Nulla di nuovo, dunque.

Mai, tuttavia, era stata intrapresa una campagna mediatica di demonizzazione del consumo della carne come quella a cui abbiamo assistito in questi giorni. Ed è di questo che occorre discutere. Lo sappiamo, ormai: quando a reti unificate, su tv, radio e giornali, si ripete ossessivamente un messaggio, ciò avviene tutto fuorché per caso. E deve destare sospetto, almeno in chi non voglia seguire inerzialmente le correnti del pensiero unico politicamente corretto e mediaticamente manipolato.

Il sistema mediatico del consenso universale e dell’omologazione di massa procede così: demonizza senza possibilità di appello qualcosa o qualcuno, crea per questa via dissenso di massa verso quel qualcosa o quel qualcuno, e poi, dopo aver guadagnato il consenso dell’opinione pubblica, procede operativamente contro quel qualcosa o quel qualcuno. Anni di bombardamenti umanitari in nome della democrazia da esportare, dei diritti umani violati e dei dittatori baffuti additati come nuovi Hitler dovrebbero averci insegnato qualcosa.

E, allora, domandiamoci in riferimento a questa demonizzazione della carne: cui prodest? A chi giova? In fondo, anche il fumo o l’alcol sono nocivi, e mille altre cose: eppure non sono oggetto di simili campagne di mobilitazione di massa. Perché nessuna campagna di sensibilizzazione di massa contro i fast-food, ad esempio?

Avanzo qui un’ipotesi. La stigmatizzazione della carne a cui stiamo assistendo si inscrive in un più ampio processo di distruzione delle culture in nome della non-cultura della mondializzazione mercatistica.

La globalizzazione è ideologia del medesimo: vuole vedere ovunque lo stesso, merci ed economia, consumatori senza radici e senza spessore critico, un amorfo gregge di atomi desocializzati non più in grado di intendere e di parlare altra lingua che non sia l’inglese della spending review e dell’austerity. Una massa senza qualità, diversificata solo per il potere d’acquisto custodito nelle tasche dei singoli.

La mondializzazione è strutturalmente eterofoba: non accetta il diverso, non ammette diversità, deve abbattere ogni limite simbolico e reale alla estensione onnipervasiva della forma merce. Ebbene, anche il cibo è una forma di cultura: “L’uomo è ciò che mangia”, diremmo con Feuerbach; ma il mangiare è sempre qualcosa di più rispetto al semplice mangiare nel suo senso banalmente materiale.

Nel mangiare, oltre alla dimensione materiale, vi è l’ambito del simbolico, della cultura e della tradizione: l’uomo è ciò che mangia, ma anche ciò che non mangia (si pensi a tutte le prescrizioni che, storicamente, interdicono il consumo di determinati cibi). Ed è appunto questo che il ritmo della mondializzazione vuole colpire, in coerenza con la sua logica: abbattere le culture plurali in nome della monocultura del mercato e del consumo. Distruggere i plurali in nome della dinamica della reductio ad unum del mercato globale.

Per questo, sempre più spesso assistiamo e assisteremo alla sostituzione dei cibi in cui si condensano lo spirito dei popolo e la civiltà di cui essi sono figli con surrogati inventati ad hoc, e più precisamente con vivande dichiarate sane e prodotte da multinazionali (le stesse, magari, che finanzieranno le operazioni con cui si deciderà cosa è sano e cosa non lo è); di modo che i gusti siano resi orizzontali su scala planetaria e si crei un unico modo di mangiare, senza screziature, senza diversità.

Il mangiare sarà appiattito alla sua dimensione meramente materiale, senza più alcuno spazio per l’elemento simbolico e culturale. Non è forse questa – la distruzione del simbolico – la cifra della mondializzazione in quanto tale? Non è forse l’annullamento delle culture l’aspetto coessenziale alla marcia del mercato e del suo imporsi su scala planetaria?

Di qui la demonizzazione della carne, ma poi anche le continue interferenze, ad esempio, dell’Unione Europea rispetto alle culture locali (regolamentazione delle pizze napoletane e della misura delle vongole allevate, per citare i casi più ridicoli). Clamorosa fu già, negli anni Novanta, la polemica sul camembert in Francia. Ed era solo l’inizio.

Sarà un caso che questa campagna contro la carne avvenga in odore di Ttip, ossia del trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico (il cui intento dichiarato è di abbattere dazi e dogane tra Europa e Stati Uniti, rendendo il commercio più fluido e penetrante tra le due sponde dell’oceano)?

Non c’è da stupirsi, temo. Dopo il politicamente corretto, sta ora imponendosi il “gastronomicamente corretto”. Dopo il pensiero unico, il piatto unico. Dopo la sacra limitazione di ciò che si può dire e anche pensare, ecco la nuova regolamentazione di ciò che si potrà mangiare e bere. Di qui le nuove mode vegetariane e vegane. Forse in un futuro nemmeno troppo remoto la carne e le specialità locali e strapaesane saranno abolite e sostituite con il nuovo menù mondializzato di cibi gastronomicamente corretti, uguale da Roma a Tokyo, da Madrid a Los Angeles.

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