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Poste Italiane in Borsa: tre forzature per vendere le azioni

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Poste Italiane

Il debutto in Borsa delle azioni delle Poste Italiane è stato fiacco, per usare toni pacati, dopo che il collocamento era stato strombazzato con insistente pubblicità e abbondanti articoli, ricopiati dai comunicati stampa. Tralasciando ogni commento e critica a monte sulla privatizzazione, c’è qualcosa da dire sulla stessa Opv (Offerta pubblica di vendita).

Primo, i normali risparmiatori sono trattati come investitori di second’ordine. Dovevano chiedere le azioni alla cieca sul prezzo, sapendo solo che sarebbe stato compreso fra 6 e 7,5 euro, che è una bella forchetta del 25%.
Invece gli investitori istituzionali (fondi comuni, banche, assicurazioni ecc.) potevano fissare un limite, sopra il quale non comprarle. Ma non era una legge divina a imporre ciò. Bastava tornare alla modalità della prima tranche delle azioni Eni, quando c’erano due giorni di tempo per chiederne, dacché era noto il prezzo finale.

Secondo, la scelta di fissare il prezzo a 6,75 euro per azione ha fatto incassare un po’ più quattrini al Tesoro, ma era tirata rispetto alle aspettative di molti investitori istituzionali. Ed è sicuramente questa la principale causa delle quotazioni in perdita, almeno nei primi giorni.

Terzo, va bene offrire condizioni migliori ai dipendenti, ma va male spingerli a sottoscrivere le azioni, attingendo dal loro trattamento di fine rapporto (Tfr). Esso ha infatti una funzione di risparmio previdenziale e di ammortizzatore sociale: è quindi molto inopportuno un suo utilizzo per speculazioni di Borsa. Infatti, malgrado le attuali aspettative favorevoli, nessuno garantisce che non finisca come con le azioni Finmeccanica. Un brutto precedente che nessuno ha ricordato.
A inizio del giugno 2000 anche Finmeccanica permise ai dipendenti del gruppo l’utilizzo del Tfr per sottoscrivere azioni, col beneplacito e anzi la benedizione dei sindacati Fim, Fiom e Uilm. Ebbene, chi nel giugno 2000 ci mise l’equivalente di 100 euro, ora se ne ritrova circa 63, conteggiati i dividendi e anche la bonus share. Significa una perdita sul 37%. Ma non basta perché, ugualmente in termini nominali e senza imposte, quei 100 euro mantenuti nel Tfr, ora sarebbero circa 154. Ovvero il 145% in più.

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