ripetizioni 675

Visto il vivace dibattito che si è aperto dopo alcuni miei post (‘Il conto salato degli studi umanistici’, ‘Università, studiate quello che vi pare, ma poi sono fatti vostri’, ‘Università, gli studi belli ma inutili e l’ascensore sociale bloccato’) su come vada scelta l’università, ho chiesto a Ilaria Maselli del centro studi Ceps di spiegare in un articolo il tanto criticato studio che ho citato in un mio precedente scritto. Lo trovate oggi in edicola, sul Fatto Quotidiano, ma non ve lo posto qua perché a noi lo stipendio lo pagano le vendite del giornale di carta.

Di questi temi si può – e di deve – discutere a lungo, ringrazio quindi tutti quelli che stanno intervenendo, qui e su altri siti, sia quelli che muovono critiche intelligenti sia i tanti che scrivono rabbiosi commenti sconclusionati.

Vorrei riassumere la questione e valutare alcune obiezioni.

Obiezioni filosofiche: non si può scegliere l’università soltanto in base alle prospettive di lavoro, contano anche le aspirazioni, le vocazioni, l’uomo non può essere ridotto a lavoratore.

Io mi limito a dire che ai ragazzi alla fine delle superiori bisogna dare quante più informazioni possibili. Chi si limita a dire “studia quello che ti piace e vedrai che andrà bene” sta mentendo. Dovrebbe dire: “Questi sono i dati sulle tue prospettive salariali future, questo il rischio che tu sia disoccupato e a 30 anni viva ancora con la mamma mentre i tuoi amici inizieranno a comprare casa e a farsi una famiglia, e tieni conto che le cose peggioreranno, perché questo Paese non cresce più. Ma se vuoi rischiare, se vuoi cimentarti in campi difficili o in cui riescono pochi, o se per te studiare una certa materia è più importante di ogni altra valutazione, fai pure, ma almeno che la tua sia una scelta informata”. Nascondere le informazioni è sbagliato. L’uomo non può essere ridotto a lavoratore, a produttore di Pil, ma neppure si può pensare di vivere in una società così benestante da potersi permettere di sussidiare studi completamente slegati dalle loro prospettive lavorative.

Molti bambini vogliono fare i calciatori, pochi decidono di puntare tutte le loro carte su quella carriera, i più giocano con gli amici dopo aver finito i compiti. Forse perché disprezzano il calcio o lo considerano una parte residuale della propria esistenza? No, magari è elemento cruciale del loro benessere, ma capiscono che difficilmente sarà la loro fonte di sostentamento e dunque cercano di procurarsene un’altra mentre tengono lo sport come passione.

Obiezioni tecniche: non hai capito lo studio del Ceps, non sai leggere i dati ecc. ecc.

Lo studio del Ceps ha molti punti per i quali può essere criticato: si basa su dati vecchi (mica è facile avere dati aggiornati di vari Paesi con quel livello di dettaglio), su un numero limitato di osservazioni, confronta Paesi tra loro poco omogenei come l’Italia e l’Ungheria ecc. E, cosa che proprio nessuno ha considerato, neppure i più saccentelli, calcola il costo dei vari studi in termini di ore di studio. Stabilisce, quindi, che alcune università sono più difficili delle altre. Ci sono valori negativi nel ritorno sull’investimento perché certe lauree, pur classificate come molto facili garantiscono salari molto bassi (le materie letterarie) o altri valori negativi dovuti al fatto che materie difficili (quelle classificate come Stem, le materie scientifiche e tecniche) non garantiscono salari abbastanza elevati da remunerare lo sforzo. Le materie umanistiche escono ancora peggio da questa graduatoria tenendo conto di questo dettaglio. Sul perché poi il valore atteso di una laurea letteraria sia tanto più negativo (-265 fatto 100 la media) per un uomo rispetto a una donna (-15) non so dire. L’unica spiegazione che mi viene in mente è che certe carriere tipo l’insegnamento ai gradi inferiori della scuola siano, per tradizione, più femminili, quindi le donne hanno più in fretta un ritorno sull’investimento. Che, comunque, resta negativo. Vero è che il valore risulta negativo (-55) anche per le donne che perseguono una carriera Stem.

Il punto secondo me è più criticabile è quello di considerare insieme scienze politiche, economia e legge: mentre per queste due esistono carriere ben precise, con professioni regolamentate e remunerate, per scienze politiche no. Da una mera esperienza aneddotica, a me non pare che ai laureati in scienze politiche – almeno in Italia – si aprano immediate carriere (anzi: molte professioni sono loro precluse).

Obiezioni esistenziali: studiare quello che si ama è un diritto.

Vero, ma ci sono due contro-obiezioni: si può amare solo quello che si studia, i licei italiani sono molto spostati sulle materie umanistiche, ragion per cui è assai più difficile appassionarsi a materie scientifiche (che soltanto pochi, nei commenti, considerano appaganti e stimolanti quanto e più di quelle umanistiche, a conferma di una certa distorsione nella formazione di base).

Consentitemi una digressione economicista: nella funzione di utilità di ciascuno di noi ci sono molte variabili. Una di queste è la soddisfazione che si prova nello studio e l’arricchimento duraturo che offre. Un’altra è il tipo di vita che si può condurre grazie al tipo di studi seguiti. C’è chi attribuisce maggior valore alla capacità di potersi godere una mostra o un libro, di avere gli strumenti culturali per decodificare il presente grazie al fatto di avere studiato abbastanza storia. E c’è chi invece antepone, come priorità di vita, avere un posto ben remunerato, una casa comprata pagando il mutuo e non grazie ai risparmi dei genitori baby boomers. In questo secondo caso, ovviamente, non basta la laurea giusta, ma aiuta. Poi, certo, bisogna costruirsi ogni giorno le capacità per essere competitivi.

Non tutti abbiamo le stesse esigenze e gli stessi valori, gli umanisti dovrebbero capirlo meglio dei commercialisti. Quindi è giusto che tutti siano liberi di avere le informazioni utili a fare una scelta consapevole sulla base delle proprie preferenze: studiare quello che si ama è un diritto, ma lo è anche studiare quello che ci darà maggiore possibilità di avere un buon stipendio e una tranquillità (economica) di vita. E per farlo bisogna essere informati.

Obiezioni civiche: le lauree umanistiche arricchiscono la società.

Vero. Ma questo vale per qualunque tipo di studio. I laureati se la passano sempre (un po’) meglio dei non laureati. Quindi è un’obiezione che sarebbe valida se qualcuno avesse messo in discussione l’utilità dell’università (cosa che fanno alcuni politici con frasi tipo “il problema è che i ragazzi non vogliono più fare i lavori manuali). Ma non è il nostro caso.

Posto che tutte le lauree aumentano il capitale umano e rendono la società più colta e intellettualmente ricca, alcune sono più utili a trovare lavoro, altre meno.

Obiezioni aneddotiche: conosco filosofi in carriera o archeologi milionari.

Magari certi umanisti non attribuiscono valore alla statistica, ma il bello dei dati aggregati è che servono a superare una conoscenza basata sull’esperienza diretta. Nessuno dice che tutti i laureati in filosofia siano disoccupati (o in geologia, altra facoltà un po’ priva di prospettive, stando ai dati Almalaurea). Ma dire “mio cugino ha studiato lingue orientali e se la passa bene” è un’obiezione debole.

Ribadisco la mia posizione: i laureati devono trovare lavoro anche grazie alla laurea, invece sembra che molti critici dicano che è sensato che lo trovino “nonostante la laurea”.

A molti dei commentatori sfugge un dato di fatto: in Italia la formazione sul luogo di lavoro, il life long learning, è molto scarsa per ovvie ragioni. Abbiamo in prevalenza aziende piccole, con poche risorse da dedicare all’investimento sui dipendenti, specializzate spesso in segmenti della filiera a basso valore aggiunto. Quindi, spesso, l’università è l’ultima occasione in cui si fa un vero investimento formativo. Poi, chi ha dato, ha dato e chi ha avuto, ha avuto.

In un mondo sempre più complesso, l’idea di dedicare anche l’istruzione terziaria a sviluppare conoscenze generali completamente prive di utilità pratica ma funzionali solo a “far ragionare” (argomentazione tipica per giustificare lo studio del greco al liceo classico) rischia di rivelarsi molto pericolosa.

Obiezioni sensate: scelte individuali e imprevedibilità.

Primo: scegliere col criterio dell’utilità rischia di creare studenti fuori corso a ingegneria o economia, pessimi commercialisti svogliati o fisici incompetenti. Vero, ma nessuno li obbliga a studiare. E poi questa obiezione presuppone una carenza di volontà da parte degli studenti che mi sembra ingenerosa. E soprattutto rivela un altro problema: gran parte delle scuole superiori non fornisce una preparazione sufficiente ad affrontare senza troppe difficoltà le facoltà scientifiche.

Secondo: il mercato del lavoro sarà sempre più imprevedibile, l’automazione e il web stanno distruggendo lavori un tempo sicuri (il tassista, il libraio ecc). Come si fa a scegliere un’università avendo la certezza che sia utile anche tra dieci anni? Non si può, ovviamente, ma se l’obiettivo è costruirsi competenze per stare sul mercato, è chiaro che specializzarsi in campi in cui gli unici stipendi sono quelli elargiti dallo Stato – sempre più sottoposto a vincoli di bilancio – è un tantino rischioso.

La cultura, la storia, la storia dell’arte o la fisica teorica possono dare pochi sbocchi ma possono anche diventare la premessa per idee imprenditoriali (in senso lato, dalla app sui monumenti al libro, al blog, agli eventi) di successo. Ma vanno integrate con altre competenze, che l’università sicuramente non offre. E che vanno costruite fuori.

La morale: università utili o darwinismo sociale?

Questa specie di darwinismo sociale che premia chi ha le competenze giuste e abbandona al suo destino chi ne è privo dovrebbe essere un grande preoccupazione soprattutto di chi ha sensibilità progressiste, di sinistra. E si affronta in tre modi: non facendo nulla (nell’idea, liberista, che i migliori traineranno la società e quindi anche i mediocri), garantendo a tutti l’opportunità di essere competitivi (con università potenziate e finanziate adeguatamente) oppure modificando gli incentivi, cioè creando le condizioni perché più persone scelgano le facoltà “utili” e perché le imprese remunerino quelle competenze (redistribuzione dei fondi, agevolazioni agli studenti, detassazione selettiva nelle assunzioni ecc).

Anche per prendere queste decisioni, un po’ di competenze scientifiche e manageriali non guastano.

Articolo Precedente

Fondi comuni: a smontare quelli italiani ci pensa Mediobanca

next
Articolo Successivo

Università: i Paesi emergenti ci superano anche per numero di laureati. E adesso?

next