Che l’ingresso nel mondo del lavoro stia diventando sempre più arduo non è una novità, e non è neppure un problema solo italiano. Nel 2014 l’Oecd ha rilevato che nei paesi del sud Europa circa il 25% dei giovani tra i 16 e i 29 anni era Neet (Not in Education, Employement or Training) cioè è non è iscritto a scuola né all’università, non lavora e non frequenta corsi di formazione professionale. Circa la metà dei giovani Neet ha anche rinunciato a cercare di reinserirsi in percorsi di formazione e non cerca lavoro. Giovani “rassegnati” che, di fatto, non vengono neppure più raggiunti da politiche di reinserimento in percorsi di apprendistato o istruzione.

Le cause di questo trend, endemico in alcuni Paesi ma peggiorato ovunque dall’inizio della crisi economica variano. Un elemento comune però è la mancanza di competenze che permettano ai giovani di essere competitivi nel mercato del lavoro. Secondo una ricerca su 22 Paesi Oecd una combinazione di abbandono scolastico, approcci educativi obsoleti e risultati scolastici poco soddisfacenti (le valutazioni Pisa degli studenti italiani continuano a essere sconfortanti) sono parte del problema, aggravato notevolmente dalla mancanza di competenze pratiche ed esperienza lavorativa. Secondo lo studio Oecd, infatti, meno del 50% degli iscritti a corsi professionali ha la possibilità di abbinare studio teorico a esperienze pratiche. Per gli iscritti ai licei la possibilità di stage integrati al corso di studio è ancora più remota. In Italia sono meno del 9% gli studenti della scuola secondaria che hanno fatto un’esperienza strutturata di alternanza scuola-lavoro (Indire, 2013).

La mancanza di esperienza e competenze pratiche sono penalizzanti per i plurilaureati così come per chi abbandona gli studi dopo la scuola dell’obbligo. Secondo una ricerca di Eurbarometer su 7000 aziende europee l’81% degli imprenditori Italiani considera l’esperienza lavorativa un requisito cruciale al momento dell’assunzione, indipendentemente dalla mansione. In Germania a considerare essenziale un qualche tipo di esperienza “sul campo” sono il 91% dei datori di lavoro, in Uk sono l’88%. Non è un caso che apprendistati e tirocini siano integrati nel curriculum scolastico dei giovani tedeschi e britannici fin dai primi anni delle superiori e a prescindere dall’indirizzo di studio scelto.

In Uk il governo promuove una serie di politiche volte ad assicurare a tutti un minimo di esperienza lavorativa come parte del corso di studi. Si va da work placement non retribuiti e di poche settimane fino a veri e propri programmi biennali di apprendistato retribuito, svolti in aziende e organizzazioni partner, che vanno dalle redazioni dei quotidiani nazionali, fino ai negozi di quartiere, i ministeri o le start up tecnologiche. Il Ministero dell’Educazione e il Ministero dell’Industria, dell’Innovazione e della Formazione finanziano questi programmi al 100% per i giovani tra i 16 e i 18 anni e li co-finanziano al 50% con le aziende per i giovani tra i 19 e i 24 anni.

I programmi di apprendistato prevedono un’alternanza tra scuola e lavoro che garantisce ai giovani una preparazione teorica e pratica molto apprezzata dai futuri datori di lavoro, che sono anche coinvolti nello sviluppo del percorso formativo. Si tratta di un approccio educativo olistico, dove aziende come Google, Jaguar, Asos collaborano direttamente con le scuole per offrire formazione a 360 gradi, modellata sulle inclinazioni e aspirazione degli studenti ma con un occhio alle esigenze del mercato del lavoro. E il vantaggio per i partner sembra chiaro: uno studio pubblicato a marzo 2015 dal Center for Economic and Business Research stima che in media, per ogni apprendista che completa il programma, la produttività aumenta di circa 10.000 sterline l’anno.

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Per i giovani italiani, cresciuti in un contesto di netta separazione tra i percorsi di formazione professionale e accademica, questo significa partire svantaggiati nel mercato globale del lavoro. A parità di qualifiche, è molto probabile che un datore di lavoro preferisca assumere un giovane candidato che ha un minimo di esperienza lavorativa. Esperienza più o meno in qualsiasi ruolo, e magari in un settore diverso. Perché mentre l’aspirante architetto italiano attesterà conoscenze tecniche attraverso diplomi e Master, la sua coetanea britannica, oltre ad avere qualifiche simili potrà anche dimostrare affidabilità, capacità di lavorare in team, e di risolvere problemi attraverso il tirocinio estivo presso un supermercato locale.

Ben venga quindi la proposta inclusa nel testo della Buona Scuola appena approvato al Senato che, ispirandosi al modello duale tedesco di alternanza scuola-lavoro, prevede programmi di apprendistato dal terzo anno delle superiori, includendo anche i licei (art. 1, co. 33-44). La proposta è una delle riforme più attese e propone semplificazione dei contratti di apprendistato (provvedimento rafforzato dal Jobs Act), creazione di laboratori territoriali per l’occupabilità  e collaborazioni agevolate tra scuole e aziende per la creazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro di 400 ore per istituti tecnici e professionali, e tirocini di 200 ore indirizzati agli studenti dei licei.
In passato la legislazione in materia (pensiamo alla L. n. 25 del 1955, la Legge Treu 196/1997 o la Legge Biagi 30/2003), pur cercando di ottemperare all’obbligo formativo, non affrontava il problema di fondo che caratterizza l’apprendistato italiano, cioè quello di essere slegato dalla scuola e dalla mancanza di un dialogo reale tra sistema di istruzione, imprese, famiglie, studenti e associazioni sindacali. C’è quindi da augurarsi che l’offerta didattica in Italia venga presto adeguata a quelli che ormai sono diventati gli standard di formazione teorica e pratica in Europa.  L’alternanza scuola-lavoro, lo dimostrano chiaramente gli esempi internazionali, riduce notevolmente l’abbandono scolastico e, soprattutto, può creare un ponte di collegamento tra la formazione e lavoro riducendo quindi la disoccupazione giovanile.

In Italia il mondo della scuola guarda con un certo sospetto alle collaborazioni con partner esterni ma c’è da augurarsi che la scuola riesca invece ad adeguarsi, e presto, alle sfide che un contesto sempre più competitivo e globalizzato propone. L’alternativa, e cioè lo status quo, significa penalizzare intere generazioni di giovani italiani, che saranno costretti a cercare altrove le loro opportunità formative, con un ovvio svantaggio per i tanti che non hanno alle spalle famiglia e connessioni in grado di guidarli.

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