Una voce, a un certo punto, ti dice: Run!, Corri!, e tu corri più forte che puoi: nel buio, nel fango, tra le sterpaglie, cadi, ti rialzi, un faro che ti si accende addosso mentre corri, corri, senti gli spari, l’abbaiare dei cani, e corri, inciampi su un filo spinato, rumore di strappi, di stoffa, di cani, un rivolo di sangue sulla mano, ma corri, corri, nient’altro, corri più forte che puoi.

Ho imparato cos’è un confine in Israele. O meglio, in Palestina: quando lavoravo per Mustafa Barghouti. E ogni volta che arrivavo in aeroporto, a Tel Aviv, diretta a Ramallah, avevo il terrore di essere rispedita indietro per imprecisate “ragioni di sicurezza”. E perdere non solo, non tanto il lavoro, quanto casa mia: il mio mondo, il mio caffè preferito, le mie strade, i miei suoni, i biscotti al sesamo, gli amici – i palestinesi, e tutta la bellezza che mi hanno regalato. Infinite volte: lì davanti a un poliziotto, ostaggio di regole, di norme che neppure hai il diritto di conoscere, e contro cui non puoi presentare appello, la tua vita in possesso di uno sconosciuto per cui sei solo un numero, un timbro, distratto, rosso o nero – Avanti un altro.

Infinite volte: ma mai come l’altra mattina. A Kobane. Quando un poliziotto turco mi ha chiuso il cancello sul naso, perché ero entrata clandestina in Siria, alcuni giorni prima, di notte, attraverso i campi, “e quindi tornatene dai tuoi amici curdi”, mi ha detto, spingendomi via. Di là dal cancello era tutto un esplodere di mortai. Un secondo poliziotto mi ha spostato con una gomitata. Stavo intralciando il passaggio di due bare. Ha aperto per le bare, e lasciato fuori me e un ferito. I morti sì. I feriti no.

Solo i morti, in Siria, trovano infine riparo.

Non ho mai dimenticato l’aeroporto di Tel Aviv. E ora che sono una giornalista, quando è possibile attraverso sempre le frontiere via terra: perché per noi europei, altrimenti, sono invisibili. Al più, paghi e compri il visto, e niente pratiche, niente moduli da compilare – fa tutto l’agenzia di viaggi. Quanto mi sono vergognata, rientrando in Italia dall’Ucraina sui pullman delle nostre badanti – di notte, al gelo, ferma al confine con l’Ungheria, loro perquisite, in coda per ore, i bagagli rivoltati centimetro a centimetro, il vento, la pioggia: io al caldo, con il poliziotto che ti offre gentile il caffè e ti racconta di quando è venuto in vacanza a Venezia. Incontro le persone più varie, nei paesi più diversi. Ma quelli con cui parlo hanno una cosa in comune: tutti: sono schiavi del luogo in cui sono casualmente nati. Non possono viaggiare. Non possono attraversare quel cancello. Mai. Neppure sotto le bombe, neppure quando gli rovesciano in testa una quantità di esplosivo equivalente a quella dell’atomica di Hiroshima, come quest’estate a Gaza. In due milioni: in trappola. Gaza. L’unica guerra al mondo priva di profughi.

Nascessero oggi, i Re Magi, dovremmo aggiungere un CARA al nostro presepe: perché è lì che finirebbero rinchiusi.

Via, via, Go!, mi ha ringhiato contro il poliziotto spingendomi dentro Kobane. Un mortaio si è abbattuto tra le macerie, non molto lontano, Go! Go!, mi ha ripetuto nervoso, mentre iniziava il fuoco di risposta, “Non voglio stare qui, è pericoloso”, Go! E si è rintanato al sicuro.

E’ a Kobane che davvero ho capito. Che davvero sono diventata cittadina europea.

A golfer hits a tee shot as African migrants sit atop a border fence during an attempt to cross into Spanish territories between Morocco and Spain's north African enclave of Melilla

23 ottobre 2014, la recinzione di Melilla, enclave spagnola in Marocco, che molti ragazzi africani tentano di scavalcare per entrare in Europa  [foto: Jose Palazon] English version

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