Piccola premessa, penso che Guarda che non sono io, brano contenuto nell’ultimo, fortunato (per i tempi che corrono) album di studio di Francesco De Gregori, Sulla strada, ci racconti, nella finzione narrativa tipica dei brani che pretendono di essere realistici e autobiografici, più di una verità.
Ma andiamo con ordine.

Se guardo indietro, al mio passato, posso dire che Francesco De Gregori c’è sempre stato. Intendiamoci, non sono così giovane da poter dire di essere nato quando già le sue canzoni erano in giro, come invece potrei fare con il suo coetaneo Claudio Baglioni, ma da che ho memoria di me senziente sì, De Gregori era lì. Sarà che ho un fratello maggiore di otto anni, con una certa passione giovanile per il cantautorato, ma fatico a pensare una sola porzione della mia vita passata, diciamo almeno fino agli albori degli anni Novanta, che non sia stata accompagnata da una canzone di De Gregori, non necessariamente da una canzone del vecchio repertorio di De Gregori. Per dire, quando nei primi anni Novanta ero solito annullare la scheda elettorale, non mi limitavo a disegnarci su falli o roba del genere, ma ci scrivevo il testo de La storia, senza sapere che un giorno il Pd di Veltroni l’avrebbe fatta propria, devastando per sempre i miei ricordi postadolescenziali.

Nel mio passato De Gregori c’è sempre stato, comunque sia.
Detto così, immagino, a un orecchio disattento, la cosa potrebbe anche suonare come un complimento. Una vita segnata dalla musica di un artista. Ora, a prescindere che la mia sia stata o meno una bella vita, questo credo poco vi interessi, suppongo che il dettaglio che vi sarebbe dovuto balzare agli occhi è piuttosto quello legato agli anni in cui De Gregori è stato parte importante della mia colonna sonora, e quelli in cui ha smesso di esserlo. De Gregori ci ha lasciato, credo per sempre, con l’album Canzoni d’amore, nel 1992. Lo dico col rispetto che da sempre provo per una fetta importante del mio passato, non fosse per quello che in genere tendo a tributare a chi ha contribuito a scrivere la nostra musica popolare e leggera. De Gregori ha scritto alcune della canzoni più belle della nostra storia musicale, non credo sia necessario sciorinarle in questa sede, ma da troppo tempo non è più capace di fare due cose secondo me essenziali: scriverne ancora o smettere del tutto di scrivere.

Ora, uno potrebbe dire: ma chi sei tu per lanciarti in un simile attacco? Premesso che questo non è un attacco, ma una critica, e premesso che, se state leggendo questo post sapete chi sono, sopra c’è scritto il mio nome e c’è pure una mia fotografia, vi basti sapere che se una cosa fa male, nel sentire, per dire, le ultime tracce di VivaVoce, raccolta in cui il cantautore romano si cimenta con il proprio repertorio, grandi successi e brani minori, è la consapevolezza che sarebbe bastato così poco per non rovinare tutto, che so, ritirarsi e godersi i diritti d’autore, darsi alla letteratura, godersi il lungomare di Senigallia. Invece De Gregori non ha mai staccato la spina, ha continuato a pubblicare album, infilando una catena ineguagliabile di album dal vivo nel tempo, in cui costantemente è riuscito nell’impresa di rovinare il frutto del suo stesso ingegno, ma tirando fuori, neanche troppo di rado, anche album di inediti, mai all’altezza del suo passato e nemmeno all’altezza del suo presente (perché se è vero che, per dirla con parole sue, i nuovi cantautori scrivono spesso canzoni banali e poco interessanti, se ne facciano una ragione, è anche vero che i vecchi cantautori non necessariamente devono puntare al ribasso, come sta facendo lui).

Siccome essere un artista è condizione privilegiata, e chi scrive non è annoverato nel Club esclusivo, potrei anche limitarmi a supporre cosa spinga un talento a mettere in mostra con tale costanza la propria vena aurea oramai essiccata, qualcosa che potremmo chiamare, impropriamente, “voglia di esserci ancora”. Ma non credo che De Gregori sia artista che continua a scrivere solo per esserci, non sono così meschino nei suoi confronti. Non credo neanche che, al pari di certe signore che, desiderose di essere per sempre giovani, o semplicemente affette da quello che in psicologia si chiama dismorfismo corporeo, De Gregori non si renda conto che le sue nuove composizioni, o le nuove versioni delle sue vecchie canzoni da poco giunte nei rari negozi di dischi ancora rimasti, altro non siano che un trattamento di botox, l’ennesimo, che lo sta trasformando in qualcosa di simile a un Re Leone della canzone italiana, mostro deforme dalla vaghissima somiglianza al se stesso di un tempo, sempre più simile ai suoi simili, un tempo in verità piuttosto differenti da lui. No, penso piuttosto che De Gregori, il cui carattere da sempre è oggetto di leggende metropolitane degne di finire prima o poi in un libro dal titolo Il libro nero del Pop Italiano, abbia colto come il suo essere un vecchio brontolone, un vecchio brontolone che era anche da giovanissimo, come un piede di porco per continuare a entrare nelle nostre case. O quantomeno nel nostro immaginario.

Va in televisione, da un Fazio, e fa l’antipatico, lo scostante, quello che schifa il suo pubblico. Racconta del suo rapporto con Lucio Dalla, qui omaggiato in uno strano mix tra la sua Santa Lucia, canzone tanto bella da indurmi ancora oggi alle lacrime e Come è profondo il mare, ma non riesce neanche in questa occasione a far trapelare alcunché di umano, nemmeno ricordando il collega e, si suppone, amico scomparso. Addirittura tira fuori un singolo, il già citato Guarda che non sono io, in cui palesemente prende le distanze dai tanti fan che sono soliti, in un mondo di selfie e starrie, fermarlo per chiedere un autografo, una foto, per dare una propria interpretazione del proprio brano preferito, finendo per proiettare sul cantante la propria immagine del cantante medesimo.

Insomma, De Gregori sembra aver trovato un modo per trincerarsi dietro la propria ruvidità d’animo per giustificare una certa aridità compositiva, tanto ha un bel passato, un gran repertorio. Guarda che non sono io, quello che non ti frega e che non ti tradisce. Bella canzone, Guarda che non sono io, insieme a Cardiologia, contenuta in Calypsos, una delle pochissime che si salvano in un paio di decenni di scempi. Canzone che forse avrebbe dovuto far propria, ripensando alla sua carriera recente, e spingerlo a smettere, perché, no, in effetti non è lui quello che duetta con Ligabue in Alice, non è lui quello che devasta le sue vecchie canzoni, ultimi ricordi di qualcosa che ha contribuito a smontarci anno dopo anno, live dopo live. Guardasse a cosa ha fatto il suo ex amico e collega Venditti (a lui è dedicata Vecchi amici, ascoltare per farsi un’idea), per dire, uno che ha smesso di avere qualcosa da dire una vita fa e che, almeno, ha anche smesso di provarci, limitandosi a tirare fuori un album di inediti ogni morte di Papa, tutti altrettanto puntualmente brutti. Oppure fai tue le parole dell’altro tuo amico, Lucio, “quanta poesia nello stare zitti se non si ha niente da dire”.

A Frà, fallo per noi, fallo per te, goditi il lungomare di Senigallia, datti alla letteratura, guarda che non sei (più) tu.

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