Si raccolgono attorno a West Florissant Avenue, l’arteria commerciale di Ferguson. E’ gente che vive in quest’angolo povero e depresso del Missouri, ma in molti sono arrivati a Ferguson da New York, Detroit, Washington D.C., Chicago. Ci sono militanti dei gruppi radicali, semplici cittadini, rapper, pastori, esperti di social media, sciacalli, attivisti per i diritti civili, disoccupati. Molti chiedono giustizia, altri visibilità, altri ancora esprimono la propria rabbia lanciando molotov e saccheggiando negozi. La galassia di gruppi, sigle, idee, interessi della rivolta di Ferguson è vasta e mobilissima.

Se il movimento non ha – ancora – una strategia politica unitaria, almeno un risultato è stato sinora raggiunto: mostrare al mondo che le tensioni razziali sono una ferita sempre aperta sul grande corpo dell’America. Ferguson offre un palcoscenico privilegiato per esprimere sentimenti e pulsioni, politiche ed esistenziali, a lungo nascoste e trattenute. C’è un ragazzo nero di diciotto anni, disarmato, ammazzato da un agente con sei colpi di pistola perché, allo stato attuale delle indagini, camminava sul lato sbagliato della strada. Il suo corpo crivellato è stato tenuto per ore in mezzo a quella strada, alimentando frustrazione e disperazione in chi assisteva alla scena. C’è la polizia che per giorni si rifiuta di rendere pubblico il nome dell’agente, e che quando lo fa mostra anche il video del ragazzo che ruba una scatola di sigari (un episodio che lo stesso capo della polizia ha dovuto poi riconoscere non essere in nessun modo legato alla sua uccisione).

C’è il governatore del Missouri, il democratico Jay Nixon, che prima riconosce il diritto a manifestare e poi impone il coprifuoco e chiama la Guardia Nazionale. Soprattutto, c’è una situazione di violenza e discriminazione da anni sul punto di esplodere. Due terzi della popolazione di Ferguson è nera, ma soltanto tre dei 53 poliziotti della città sono neri. Il sistema scolastico è a pezzi (l’unico sovrintendente scolastico nero è stato appena licenziato). Il tasso di disoccupazione, per i neri, è del 26%; per i bianchi del 6,2%. Il Missouri aveva, nel 2010, il tasso di afro-americani ammazzati, in azioni violente o in scontri con la polizia, più alto d’America. Ecco dunque che, nei suoi momenti iniziali, la protesta ha una base locale ed è soprattutto la reazione esasperata all’ingiustizia generale e alla morte senza senso di un ragazzo di diciotto anni.

I dimostranti locali, ancora oggi, tendono a raccogliersi attorno al QuikTrip, il minimarker saccheggiato subito dopo la morte di Michael Brown. Altri hanno come loro punto di riferimento l’area di fronte al posto di polizia di Ferguson. Gran parte di questi sono dimostranti pacifici, perché, come ha detto uno di loro, Ronnie Natch, un producer musicale, “noi resteremo qui, quando questa storia sarà finita”, e quindi la voglia è più quella di costruire che di distruggere. Molti di questi manifestanti si sono in questi giorni collegati in una rete, locale e nazionale, cui è stato dato il nome informale di Black Twitter, e che attraverso i social media fa girare informazioni, foto, aggiornamenti sulla situazione attorno a West Florissant Avenue (in modo non diverso, fanno notare alcuni, da quanto successo a Tahrir e nelle altre piazze delle “primavere arabe”).

Con l’esplosione mediatica e internazionale della storia, Ferguson diventa però un magnete irresistibile per molti “esterni”. Arrivano in zona le New Black Panthers con il loro leader, Hashim Nzinga, e ogni mattina simulano una mini-parata militare con il pugno alzato nel segno del black power. Si rivedono molti giovani militanti del movimento Occupy Wall Street. Sono quasi tutti bianchi e insegnano ai dimostranti di West Florissant come assemblare maschere rudimentali per difendersi dai gas lacrimogeni. Per le strade compaiono cartelli e manifesti con le sigle dei gruppi antagonisti USA: il Revolution Club di Chicago, il Revolutionary Communist Party, i Bloods di Los Angeles. Non mancano i gruppi più organizzati e mainstream. Al banco del National Action Network, la rete organizzata dal reverendo Al Sharpton, nei giorni scorsi distribuivano cibo e acqua per chi da giorni resta per la strada. E se i looters, gli sciacalli, i saccheggiatori, sono per loro stessa natura mobili e nascosti – scompaiono e riappaiono quando la protesta si infiamma e la rabbia si indirizza contro negozi e centri commerciali – sono cresciuti negli ultimi giorni anche i militanti che preferiscono mezzi di protesta più radicali. Li chiamano proprio così, a Ferguson: “The militants”.

Si riuniscono attorno a un distributore di benzina bruciato su West Florissant e preparano rudimentali molotov che definiscono “le bombe dei poveracci”. Difficile dire cosa sarà di questo magma complesso e sfuggente di rabbia, speranze, violenza, voglia di costruire, disperazione, nichilismo, aspirazioni al cambiamento. E’ quasi certo che, come già successo con Occupy Wall Street, anche la rivolta di Ferguson non darà vita a un movimento organizzato con dei leader definiti. “Volete sapere chi è il nostro leader?” urlava l’altro giorno un ragazzo, indicando il luogo dove è stato ucciso il diciottenne nero. “Il nostro leader è proprio lui! Mike Brown!”. Ma è altrettanto probabile che, proprio come Occupy Wall Street, i dimostranti di Ferguson abbiano indicato una colossale ingiustizia, e dato corpo a una richiesta di giustizia, che non scivolerà facilmente via dalla politica e dalla coscienza americane. “Per la strada ci sono ragazzi normali”, spiegava alcuni giorni fa un community organizer di St. Louis, Dennis Brown. “Hanno visto quello che è successo a Trayvon Martin, e prima a Oscar Grant e ancora prima a Rodney King. Ci sono eventi della storia che colpiscono il cuore della gente. E questi ragazzi ora hanno capito di averne avuto abbastanza”.

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