È successo di nuovo, l’altro ieri. Così come accade puntualmente, da 24 anni.

Migliaia di persone, di tutte le età, culture, ideologie sono arrivate sino al Cerro Nutibara, in cima a una delle alture andine che circondano Medellin e hanno riempito sino all’inverosimile l’anfiteatro all’aperto in occasione dell’inaugurazione del Festival Internazionale di Poesia di Medellin, Colombia.

Erano là per ascoltare, vedere, fare ‘esperienza’ della poesia.

E con loro c’erano decine di poeti, provenienti da ogni parte del mondo, dalle Americhe, dall’Oriente Vicino ed Estremo, dall’Europa, dall’Africa.

Tutti là, a partecipare a qualcosa che certamente è qualcosa di più di un semplice festival di poesia, almeno per come lo immagineremmo da noi in Europa, è un rito collettivo, una moltitudinaria esperienza d’identità, un dialogo fantasmagorico di lingue differenti e differenti poesie, una sorta di gigantesco, incredibile atto d’amore per l’arte più negletta di tutte in Occidente, per l’arte che ogni volta scova questa sua ostinata quasi-immortalità proprio al fondo del suo essere tanto ineluttabilmente fragile.

E hanno letto i poeti, hanno cantato, hanno urlato, hanno sussurrato, hanno ‘fatto’ la poesia con i loro corpi e le loro voci, e ha recitato con loro, con loro ha cantato, ha danzato, ha urlato e ha sussurrato anche quello che qui da noi, in Italia, chiameremmo il ‘pubblico della poesia’.

Com’è possibile che accada una cosa del genere e proprio qui, nell’emerito regno di Pablo Escobar e del suo inutile e immondo ‘cartel’?

Perché nella nazione che conta decine di guerre civili, violenza, nel paese delle Farc e dei paramilitari fascisti, nel paese dei ‘falsos positivos’ e dei loro aguzzini, la gente, tanta gente, trova tempo e voglia per correre ad ascoltare dei poeti?

Cos’è dunque la poesia, tra le Ande e il Caribe?

Esiste davvero una città che si chiama Medellin e che anche grazie alla poesia sta cambiando il suo volto, sta provando a diventare infine se stessa?

Dobbiamo davvero credere che la poesia può cambiare il mondo?

Dobbiamo arrenderci a quest’evidente ingenuità?

O forse è che la poesia il mondo non può cambiarlo, ma che senza la nuove parole che solo la poesia sa stanare è impossibile anche solo immaginarla una qualsivoglia ‘Rivoluzione’?

Luigi Nacci, poeta profondo e spietato, ha scritto proprio qualche giorno fa un bellissimo articolo dedicato alla poesia e alla solitudine, a quanto questa solitudine della poesia sia una condizione necessaria alla poesia stessa e in generale a ognuno noi, a quanto poi questa condizione sia in fondo rassicurante, protettiva. A quanto essa ci sia indispensabile.

Ha appena pubblicato un libro sulla viandanza, Nacci, un libro che tira, che vende, e ora deve fare i conti con quest’esperienza tutto sommato insolita per un poeta: essere letto da qualcuno che poeta non è. 

Ma Nacci non si fa incantare dalle lusinghe, sa bene che la parola della poesia viene prima e resta dopo ogni sua comunicabilità: “Allora ti dai questo compito: apri un libro di versi a caso non appena si parla di te in giro. Non appena qualcuno ti invita o ti recensisce, apri un libro di versi. Leggili ad alta voce, poi fai silenzio, poi ripetili, fai silenzio, avanti così. Se vuoi scrivere un altro libro di prosa, va bene, fallo. Ma alla fine di ogni capitolo alzati dalla sedia e vai a prendere un libro di poesia a caso. Entra dentro quella solitudine. Una solitudine senza doppi fini. Una solitudine per la solitudine. Quando e se te la senti, scrivili, dei versi. Che siano tesi, come muscoli, gonfi. Che sia necessario scriverli, come la prima volta”.

Ma che rapporto ci potrà mai essere, infine, tra questa solitudine di cui Nacci ci ricorda, e le moltitudini di Medellin?

Forse che tutto ciò significa che parliamo di differenti ‘Poesie’, una lontanissima dall’altra? Incomunicabili ed estranee?

Impossibile, visto che lì a fare comunità c’erano anche – io per primo – poeti che avrebbero volentieri sottoscritte una per una le riflessioni di Nacci?

Allora forse la risposta è un’altra: è che la poesia è proprio questo raffinato esercizio di solitudine e riflessione, questo esercizio estremo della lingua, questo tenere in allenamento ogni singola parola, quasi fosse un muscolo, o un respiro, questo progettare un’utopia di parole, concretizzare la speranza consolidandola con la disperazione e il dolore, questo sprofondare nell’io sino a dimenticarlo, perché un altro possa poi riconoscersi in quella menzogna e scoprire le proprie verità, ma che poi essa perde ogni senso, se non si trasforma in atto, se non si comunica, se non incontra l’altro da sé.

Insomma che la poesia altro non è che quell’affollata solitudine di cui ci diceva Pessoa con tutti i suoi eteronimi, e che ciascuno di noi poeti non è mai solo ‘un’ poeta, non è mai un ‘poeta solo’, ma  è sempre ‘molti’ poeti, uno per ognuno di coloro che ascoltandoci vorranno accogliere la nostra solitudine, rubarcela e farla propria. Che la poesia è un cammino da sé all’altro, un cammino senza fine, dove ogni trappola, ogni agguato della parola e dei destini è sempre un’occasione in più per vivere la propria vita come se fosse anche quella dell’altro.

Chi si ferma è perduto. In Italia, come a Medellin, perché, come dice Nacci, “tutto ciò che non è necessario, non durerà”, poiché, infine, la poesia è nata ben prima dei poeti e certamente a loro sopravviverà. Con buona pace dell’io lirico e di tutti i suoi ridicoli e tronfi complici.

da Medellin, Colombia

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