Pec: posta elettronica certificata, ovvero la nuova modalità di comunicazione che avrebbe dovuto rivoluzionare il rapporto tra cittadini, imprese e pubblica amministrazione con un sistema di trasmissione sicuro e regolamentato dalla legge per inviare documenti e messaggi di posta elettronica con valore legale. Ma il condizionale è d’obbligo: alzi la mano chi utilizza la Pec per relazionarsi con l’amministrazione e, quindi, con ministeri, uffici comunali, ospedali, polizia municipale o tribunali. Eppure questo strumento è datato 7 marzo 2005 con l’ok al decreto legislativo n. 82 che ha istituito il Codice dell’Amministrazione Digitale. Tre anni dopo il dl 185/2008 ha introdotto l’obbligo della creazione di un indirizzo di Pec per imprese e professionisti iscritti agli albi (come avvocati, giornalisti o geometri). A seguire la circolare n. 1 del 2010 del Dipartimento per la digitalizzazione della Pa e l’innovazione tecnologica (firmata dall’allora ministro Renato Brunetta) annunciava l’inizio di una “nuova era nel segno della trasparenza e dell’efficacia dell’azione pubblica”. E, da ultimo, il piano E-gov 2012 (sempre targato Brunetta) che ne ha fatto il fiore all’occhiello del definitivo salto nel digitale. 

Nei fatti, però, sono molto pochi cittadini se ne servono. Anche perché utilizzare la posta elettronica certificata per comunicare con la pubblica amministrazione e scambiare comunicazioni fra aziende senza ricorrere ai sempre più farraginosi canali tradizionali non è un obbligo per tutti, ma solo (dal 30 giugno 2013) per le imprese e i professionisti, pena una sanzione pecuniaria fino a mille euro. Un dettaglio, quest’ultimo, non da poco che ha creato un divario nell’utilizzo della Pec. Se, infatti, società e imprese hanno avuto riscontri positivi relazionandosi con la posta certificata per dialogare sia con altri professionisti che con la Pa (è il caso, ad esempio, dell’avvocato che riceve dal tribunale la convocazione dell’udienza), sul fronte dei cittadini la rivoluzione non è invece mai partita.

E i numeri lo dimostrano. Ad oggi – secondo gli ultimi dati diffusi dall’Ini-Pec (cioè l’Indice nazionale degli indirizzi istituito dal Ministero dello Sviluppo Economico) sono disponibili oltre 1 milione di indirizzi di professionisti relativi a quasi 1.600 ordini e collegi professionali, e circa 4.200.000 indirizzi di imprese (società e imprese individuali). Mentre – spiega Federica Meta del Corriere delle Comunicazioni – “ad aprile 2014 le caselle di posta elettronica gratuite (Cec-Pac, Comunicazione elettronica certificata tra Pa e cittadino) destinate agli utenti per la sola comunicazione con il settore pubblico erano poco più di 1.700.000. Gli italiani, quindi, non hanno né acquistato la Pec da uno dei gestori attualmente autorizzati dall’Agenzia per l’Italia digitale, né stanno sfruttando la possibilità di accedere gratuitamente a quella governativa. Un servizio – prosegue – gestito da Poste e Telecom, vincitori di un bando da 50 milioni di euro scaduto a febbraio”. Non c’è, quindi, neanche il fattore ‘denaro’ a condizionare negativamente gli italiani nel non utilizzo della Pec. Un lamentela, quest’ultima, sollevata invece dalle imprese dopo che per loro è scattato l’obbligo. Si tratta, in particolare, di una spesa che in media – per il servizio premium offerto dai gestori privati – può arrivare in media a 25 euro. “Sembra più una questione di mancanza di percezione sui vantaggi e sull’utilità – prosegue Meta – che fa snobbare questo strumento che deve, invece essere paragonato alla raccomandata con ricevuta di ritorno”.

Una pecca che tocca anche le alte cariche dello Stato. È il caso del presidente della Repubblica che lo scorso novembre spedì alla Corte d’Assise di Palermo una lettera in cui manifestava la propria disponibilità a deporre in aula nell’ambito del processo sulla trattativa Stato-mafia. Peccato che la missiva arrivò dopo l’udienza e che il Quirinale avrebbe dovuto comunicare con la Pec.

Del resto chi dovrebbe pubblicizzare la Pec? Il piano di Brunetta (l’ideatore – a suo dire – della “più grande rivoluzione culturale mai prodotta in questo Paese, nonché la migliore riforma italiana dal dopoguerra ad oggi”) è naufragato e lo sforzo di far districare i cittadini nella giungla dei rapporti con la Pa è poi passato, nel 2013, nella mani di Francesco Caio con la sua nomina a mr Agenda Digitale da parte di Enrico Letta. Ma il compito del futuro ad di Poste è finito nel nulla. Eppure la sua missione era chiara: una cinghia di trasmissione tra i tecnici dell’Agenzia per l’Italia Digitale e la politica per raggiungere tre priorità: fatturazione elettronica, anagrafe nazionale e identità digitale (sotto cui ricade anche la Pec).

Una road map che messa a regime diventerebbe fondamentale anche per la spending review. Lo si può capire leggendo l’elenco delle possibili fonti di risparmio nella spesa pubblica prodotto dal commissario Carlo Cottarelli: si parla di 3,6 miliardi di euro di risparmi entro il 2016 grazie alla digitalizzazione della Pa. “Si tratta di una vera rivoluzione che – spiega Benedetto Santacroce, avvocato tributarista – se venisse realizzata con la definitiva vittoria dell’identità digitale rispetto ai vecchi sistemi di comunicazione migliorerebbe la vita dello stesso cittadino. In troppo pochi ancora sanno che dal gennaio 2013 comunicare con la Pa mediante la Pec si possono ricevere le multe, i certificati o le cartelle esattoriali direttamente sulla propria email, dicendo addio alle lunghe file alla posta o negli uffici. Inoltre, la Pec – sottolinea Santacroce – può anche agevolare la lotta all’evasione, dal momento che comunicando il proprio domicilio digitale, anche se si cambia città o Stato, il Fisco sa sempre come rintracciarci”.

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