Si fa presto a dire Veneto.

Tanko o non tanko, la faccenda è assai complessa e non bastasse la cronaca quotidiana, ci sono i dati macroeconomici a ricordarci che il Veneto sulla riva del Po, nella bassa rodigina, è ben altra cosa da quello all’altezza dolomitica di Vicenza, Belluno, o Cortina, e anche, ça va sans dire, da quello in riva al Brenta, all’Adige, al Piave, o al Sile, e che tutti questi non sono certo Venezia: che è veneta, sì, almeno quanto il Veneto è veneziano, ma che non è il Veneto tout court, e che dunque San Marco è in realtà soltanto una povera sineddoche di un Pantheon condiviso anche con il beato Antonio e con il Papa Sarto (che qui è familiarmente Pio Ics) e con gli ostici Dei celti e cimbri, mentre il ginevrino Jean gode qui, sia pure sotto le mentite spoglie dell’onest’uomo laborioso, di ottima fama: ché certamente i veneti sono cattolicissimi, ma poi sono anche le più calviniste tra le pecorelle di Santa Romana Chiesa.

Questo vale anche per la sua letteratura ricchissima, che è Baffo, Casanova, Goldoni. Ma che ha cibato e insaporito anche immigrati illustri, Dante, Petrarca, Foscolo, che è Bembo, ma anche Folengo, e via così.

Anche oggi: perché sulle vie del Veneto vanno a braccetto Zanzotto e Calzavara, il petèl e il dialetto della Marca Gioiosa che sperimentalmente confligge con inglese, italiano, latino, che si fa poesia visiva, smorfia dada e sghimbescia.

E così sono diversamente (e felicemente) veneti, tanto Pier Franco Uliana, quanto John Gian e avere davanti, come accade a me, le loro ultime pubblicazioni è avere  sotto gli occhi l’immagine delle mille e mille maniere d’essere – oltre che poeti – veneti.

L’Ingens Sylva (De Bastiani ed.) di Uliana è un raffinatissimo volumetto d’aforismi dedicato al bosco (alla selva) del Cansiglio, luogo frequentato già da Zanzotto e prima ancora dal Della Casa, un mazzo d’aforismi in prosa spiccatamente poetica che non è tanto una descrizione del bosco, quanto un viaggio nei suoi miti, nella sua storia, nelle lingue che, una sull’altra, si sono sedimentate ai piedi dei suoi alberi secolari.

Lingua e territorio vanno da sempre insieme nel lavoro di questo poeta schivo, sono gli ingredienti fondamentali, insieme alla memoria, della sua poesia migliore, ma non per sghiribizzo filologico, quanto per la certezza che l’uomo, ogni uomo, è fatto, innanzi tutto delle sue parole. La toponomastica (con l’etimologia) può essere, così, destro di poesia, poiché “le radici della lingua madre (ieri Latina Lingua oggi Mother tongue) sono le stesse, apparentemente diverse, sempre che esistano boschi da comparare, dal cenedese rustico, (…) all’inglese della deforestazione. (…). Sono poeti di limitare, diglotti e bilingui. Autenticamente glocali perché sanno abitare con cura il centro della periferia”.  

Mentre la selva, per il poeta, sin da Dante, è il luogo per eccellenza del poetare. Anche in questo nostro mondo, tanto fitto di post-selve che fanno da sfondo a miliardi di selfie; “la selva è atopica, la radura utopica”, come ci ricorda Uliana. 

Né è lecito scambiare quest’amore per le radici con il bigottismo di qualche tradizione, poiché: “Gli oracoli e i poeti selvatici scrivono solo sulle foglie d’acero. Le stesse con cui i boscaioli si puliscono il culo. Il dada non fu che un plagio stercorario, da epigoni urbani”.

Diametralmente opposto è il lavoro di John Gian, sin dagli anni 70 ottimo sperimentatore aperto a ogni cimento (verbale, visivo, sonoro), fortemente influenzato dalla tradizione Beat americana, vicentino trapiantato da sempre a Venezia: dalla laguna, lui Serenissimo per davvero, è andato nel mondo per scoprire, scambiare, cortocircuitare quella merce tanto ambigua che chiamiamo poesia.

Ché il mare, quello veneziano più di molti altri, è sempre porta per l’altrove.

Con questo –P- (23-24) (ApARTe ed.) realizza un’ulteriore puntata, la terza, di un progetto che prosegue da tempo, iniziato a San Francisco nel 1979, un lungo flusso di memoria autobiografica, un vero e proprio racconto in versi, i cui capitoli corrispondo agli anni di vita del poeta e gli anni di vita del poeta a quelli del mondo.

In –P- (23-24) il flusso verbale si traduce, però, in un frammentato singhiozzo, spezzettato com’è da trattini che separano le singole parole, dando, più che l’idea di una pausa, quella della difficoltà estrema delle parole, oggi, di pronunciarsi, costituirsi, collegarsi in sintassi (e dunque in ‘senso’), alludendo alla voce e abitandola, ma sottolineando la difficoltà estrema del respiro e della memoria in questo tempo di presente eterno.

Di fondo c’è un cut-up reiterato, una poesia di elenchi in cui sono evidenti gli influssi poundiani (e anche il vecchio Ezra passò spesso in laguna e lì riposa): “Predisposto – all’unione – attratto / dall’illusione – non incline – alla separazione / 1972 – Venezia – dello – spazio onirico / onde – si infrangono – su – basamenti».

Al fondo c’è la scommessa di ogni poesia: quella di raccontare la storia del mondo, ripensando la propria.

A renderli vicini, e non simili, non è tanto l’accento vernacolo di uno, né la capacità cosmopolita e sperimentale dell’altro, quanto la capacità del bosco di intravedere dalle sue cime il mare, la capacità del mare di farsi porto d’approdo per chi si incamminerà nel bosco.

Perché il Veneto, con buona pace di tanki e plebisciti, non è uno, ma è certamente più della somma delle sue parti: è un mondo nel mondo, che di confini precisi non ha mai saputo che farsene.

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