Quasi ottocentomila euro di fondi europei sottratti alle casse pubbliche e accreditati su conti correnti personali senza che nessuno se ne accorgesse. È quello che è successo per anni negli uffici della Regione Siciliana, dove tredici dipendenti e due imprenditori riuscivano a distrarre fondi europei per migliaia di euro con un semplice clic, per poi trovarsi con conti correnti gonfiati a dismisura. Compresi i soldi per un’iniziativa sulla legalità intitotalata al generale Dalla Chiesa, assassinato da Cosa nostra. I furbetti dell’Iban, li hanno ribattezzati i carabinieri, che stamattina hanno notificato a tutti il provvedimento di custodia cautelare richiesto dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dal sostituto Alessandro Picchi.

È proprio alterando le credenziali bancarie che ingentissime somme venivano prelevate dalle casse dell’Assessorato regionale alla Formazione per poi finire nei conti correnti di Emanuele Currao, funzionario regionale indicato come il principale elemento della maxi truffa, finito agli arresti domiciliari insieme a dodici colleghi. Diversi i casi clamorosi in cui sul conto corrente di Currao finivano soldi pubblici destinati ad altre attività. È il caso dei 200 mila euro che spettavano alla Regione Veneto, ma che invece Currao accreditò ad una società appaltatrice dell’assessorato siciliano alla Formazione, grazie alla semplice modifica dell’Iban. La somma di 42 mila euro per pagare un viaggio in America Latina di alcuni dirigenti regionali fu invece erogata due volte: prima per pagare il debito con l’agenzia che aveva organizzato la trasferta, poi per rimpinguare il conto corrente di Currao. Soldi pubblici sarebbero stati elargiti anche all’imprenditore Mario Avara, una probabile contropartita dato che aveva appena costruito una casa a Sciacca per lo stesso Currao.

Ancora più paradossale è invece il destino dei fondi destinati ad un progetto dedicato alla memoria del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso da Cosa Nostra a Palermo il 3 settembre 1982: le risorse destinate dalla Regione a un progetto per la legalità intitolato a suo nome, sono invece finite nelle disponibilità personali dei dipendenti indagati. Semplicissimo il metodo con cui Currao, ex funzionario dell’area Affari generali, dirottava il denaro su conti correnti a lui vicini: bastava modificare il numero dell’Iban accedendo al sistema informatico della Regione ed ecco che come d’incanto, fondi destinati alla formazione professionale finivano tra le sue entrate personali.

“Qualcuno ha considerato la Regione come una vacca dalle mammelle disponibili” è l’amara considerazione di Nello Musumeci, presidente della commissione antimafia regionale. “Lascia sgomenti, perplessi e increduli e mette in evidenza l‘assenza di un idoneo sistema di controllo lungo la filiera di pagamento di mandati, se non addirittura l’assoluta indifferenza da parte di dirigenti e funzionari e in generale di dipendenti pubblici della Regione siciliana per un’amministrazione occulta delle risorse pubbliche” commenta il colonnello Pierangelo Iannotti, comandante provinciale dei Carabinieri di Palermo. “Gli arresti di oggi sono un ulteriore episodio di una storia che sembra infinita. Tutte le volte che si va a verificare una vicenda che attiene all’erogazione di fondi pubblici, è molto facile riscontrare un quadro di illegalità” ha invece sottolineato Francesco Messineo, procuratore capo di Palermo.

Currao, secondo gli inquirenti, aveva trasformato le casse regionali nel suo bancomat personale grazie alle password e alle credenziali del sistema informatico regionale, che gli erano state fornite da un’altra dipendente regionale indagata, Maria Concetta Cimino. La dirigente oggi in pensione era già stata travolta da un’altra vicenda giudiziaria nel 1996, finita dieci anni dopo con l’assoluzione, e poi raccontata in un libro, in cui si dipingeva come un semplice capro espiatorio: la pubblicazione, intitolata “Giustizia in contumacia”, è stata addirittura insignita di un premio intitolato ad Elio Vittorini, mentre oggi la Cimino è finita nuovamente al centro di un’inchiesta della magistratura. Se come capro espiatorio o meno, sarà un giudice a stabilirlo.

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