Alla fine dello scorso agosto scrissi su questo blog le ragioni per le quali avevo accettato di far parte della commissione nominata dal ministro Massimo Bray per la riforma del Ministero per i Beni Culturali. La prima era che quelle riforme erano terribilmente necessarie e urgenti, la seconda è che Bray è il miglior ministro per i Beni culturali che si sia mai visto in questo sventurato Paese, la terza era la qualità degli altri membri della commissione (senza far torto a nessuno vorrei ricordare almeno Paolo Baratta, Lorenzo Casini, Matteo Ceriana, Maria Pia Guermandi, Diana Toccafondi). Concludevo: «Ovviamente ora non so dire se la commissione stessa riuscirà nel suo intento. Lo vedremo (entro il 31 ottobre, quando il lavoro dovrà esser concluso): è uno dei casi in cui per sapere com’è il budino, è necessario mangiarlo».

Ebbene oggi che – soprattutto grazie all’impegno del presidente, l’ottimo giurista, nonché fine diplomatico, Marco D’Alberti, e della giovane e qualificatissima segreteria tecnica – quel lavoro è finito (incredibilmente in tempo: la relazione è stata presentata a Bray il 31, e alla stampa oggi), posso scrivere che il budino non era affatto male.

Un po’ di numeri: 20 membri (a compenso, e rimborsi viaggio, pari a zero euro), ma Riccardo Luna è venuto solo una volta e poi si è dimesso; 8 sedute; 29 audizioni; 88 pagine di relazione; 32 suggerimenti pratici; un gran numero di documenti allegati, e che saranno liberamente consultabili. Bray ha partecipato ai lavori tre volte, come anche la sottosegretaria Simonetta Giordani. L’altra sottosegretaria, Ilaria dell’Acqua Borletti Buitoni, mi si è presentata molto simpaticamente, dicendo che dopo averla conosciuta di persona avrei potuto scriverne anche peggio: cerco di accontentarla, annotando che è venuta in commissione una sola volta, ha tenuto una breve omelia in lode del privato, ha cercato di spiegare il piano per il turismo a chi aveva contribuito a scriverlo ed è andata via senza ascoltare le repliche.

Annoto velocemente di seguito quelli che mi paiono i risultati più importanti, e che si possono dividere in affermazioni di principio (che è stato fondamentale avanzare, o ribadire, solennemente: perché da queste dipende ogni decisione concreta) e proposte operative.

Tra le prime: «i beni del paesaggio e del patrimonio storico devono essere tutelati al fine di poter consentire lo sviluppo della cultura e della ricerca» e «la “valorizzazione” è attività costituita dall’esercizio delle funzioni e dalla disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, al fine di promuovere la cultura» (cioè: i beni culturali non sono il petrolio d’Italia, non servono ad arricchire i concessionari, non vanno messi a reddito). Ancora: «Il nuovo disegno della struttura e delle funzioni del Ministero dovrà assicurare che esso sia in grado di rapportarsi con i privati da una posizione di forza, derivante anche dalla giusta valorizzazione dei saperi tecnici all’interno dell’amministrazione» (cioè: dobbiamo smetterla di andare col cappello in mano a chiedere l’elemosina per fare ciò che lo Stato deve e potrebbe ben fare). E poi: «I pochi e incompleti dati a disposizione evidenziano comunque una totale insufficienza di risorse finanziare e umane, per cui il Ministero appare a stento in grado di provvedere a compiti di manutenzione dei beni di cui deve prendersi cura. Tale aspetto critico trova conferma nella grave vicenda del personale del Ministero disciplinato da contratti atipici, di cui – come emerso in sede di audizioni – neanche si conosce l’esatta numerosità»: cioè o si riporta il bilancio del Mibac almeno a livelli pre-Bondi oppure lo condanniamo a morire, diventando (o rimanendo) un colossale cimitero di precari iper-sfruttati.

E veniamo alle proposte concrete. Abbiamo, tra l’altro scritto che il Mibac deve dimagrire al centro, diventando più efficiente in periferia. L’idea forte è di dare piena autonomia a tutti gli istituti sul territorio (musei, scavi, archivi, biblioteche etc), facendoli dipendere da una Direzione generale centrale a loro dedicata. Le Soprintendenze, invece, dipenderebbero da una Direzione per il Patrimonio, organizzata a sua volta per funzioni (tutela ed educazione, per esempio). Questi due e gli altri cinque direttori generali previsti (bilancio, personale, innovazione, spettacolo e turismo) opererebbero collegialmente: senza bisogno della figura pletorica del segretario generale. Le Direzioni regionali, invece, dovrebbero diventare gangli di coordinamento amministrativo, cessando di essere super-soprintendenze, e restituendo così alle vere soprintendenze la possibilità di fare tutela e fare ricerca.

È poi urgentissimo sanare la piaga del precariato (durante l’audizione della precaria del patrimonio Sonja Moceri e di due sue colleghe, le ovattate sale del Mibac sono state attraversate da un agghiacciante soffio di verità),procedendo «ad un concorso di reclutamento aperto, disciplinato da un bando che tenga in adeguata considerazione titoli di anzianità e di specializzazione». La commissione ha poi proposto di fondare una Scuola del Patrimonio, che formi al meglio i futuri funzionari della tutela.

Sul rapporto pubblico-privato abbiamo almeno detto che «le concessioni potrebbero essere affidate anche a cooperative di giovani − storici dell’arte, archeologi, archivisti e bibliotecari». E che va distinta l’«ideazione delle mostre, la loro programmazione, il vaglio della loro scientificità, tutti aspetti per cui va assicurato un ruolo forte dell’amministrazione pubblica, dalla loro organizzazione materiale, che può essere concessa ai privati, preferibilmente con convenzioni legate a singole iniziative»: cioè basta col circo equestre delle mostre di cassetta che fa bene solo a chi lo gestisce.

E ora che succede? Durante la seduta finale, Massimo Bray ha detto che entro l’anno le proposte della commissione saranno «attuate e rispettate con grande attenzione», e che il Mibac sarà riformato radicalmente, «con segni forti di discontinuità nelle responsabilità». Se riuscirà davvero a farlo, sarà un piccola-grande rivoluzione.

 

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