Giuseppe Cristaldi è uno scrittore alla sua quinta opera, salentino come me, la lettura del cui ultimo romanzo uscito in primavera ho terminato in questi giorni. Ad attirarmi è stato proprio il titolo: ‘Macelleria Equitalia.

Che si abbia avuto a che fare o meno con l’ente spauracchio e che piaccia o no, Equitalia è un nome evocativo, e non certo di idilliache visioni. Il libro in effetti mantiene la promessa del suo titolo. Quello che esso non svela nelle due parole è però l’incredibile poesia che contrasta e stride con la drammaticità delle storie e dei personaggi raccontati.

Lo stile narrativo di Giuseppe Cristaldi è carnalmente seduttivo, con quell’alternarsi di espressioni dialettali, crude, sanguigne, veraci, a immagini fortemente sognanti, oniriche, sospese. Michele Placido nella nota di copertina scrive che Cristaldi fa scorrere la penna su carta bianca dando vita ad una lingua ‘altra’.

‘Io una ninna nanna come si deve ce la voglio sussurrare a queste neonate verdi. Sono figlie mie anche loro, se ci rifletti. Come i miei operai, né più né meno; mutano solo gli occhi. 
Le piante ti nascondono lo sguardo, gli operai ti mettono le pupille a penzoloni’.

E se lo scrittore non tralascia nessun elemento del puzzle meridionale salentino come pettegolezzi paesani in grado di curvare spalle larghe, malavita, schiavitù lavorative, ricatti, violenze, corruzione, amianto che ammala e uccide e disperazione che ‘non ha occhi, né rosari‘, sull’altro piatto ci sono la terra, onnipresente ‘terrarussa, vera protagonista, e poi contadini che ‘si fanno la poesia nelle tasche spundate e nemmeno se ne accorgono‘ con vene degli avambracci che ‘somigliano alle radici dei loro alberi, acqua e impianti di irrigazione temporizzata, piante e petali perché un petalo ti dà più di quanto tu possa dargli, stelle che sorvegliano dall’alto i bambini, mare che sape tuttu, calore che è il caldo con la vita dentro, cucina, che è la fantasia con un quarantotto di piede, donne, vergini e madri, tutte forti e tutte simili a delle sante laiche.

Triste attualità tinta di solida tradizione dunque sono le storie raccontate dai diversi punti di vista dei personaggi. E’ un libro ‘corale’ dove a parlare di volta in volta in prima persona sono tutti gli sconfitti, sebbene poi il ‘futuro su cui nessuno scommette‘ sia affidato al riscatto del ragazzo poliomielitico, il dolce Nico.

‘Perché poi il Salento è soprattutto un paradiso, ma di voragini. Tu ci passeggi leggiadro, inali le correnti, impiatti le nuvole a ogni pasto, e non ti avvedi mai degli squarci che ti fanno scunfundare nella fanghiglia’.

Quando, nello stesso capitolo, ad alternarsi nel racconto sono due donne in soluzione di continuità (distinguibili per la trovata stilistica della loro differente parlata), è come sentirne davvero le voci. Improvvisamente mi è tornato in mente il museo per la Memoria di Ustica a Bologna, nel mio vecchio quartiere di residenza, dove l’installazione di Boltanski consiste nella diffusione di voci dagli altoparlanti: fantasmi di donne, uomini e bambini sussurrano i loro pensieri con un risultato inquietante e tormentato che scuote e non può lasciare indifferenti. Lo stesso ho provato ‘leggendo’ in Macelleria Equitalia le voci della sofferenza salentina.

Un romanzo scritto di pancia, con assoluto dominio di lingua, che va letto di pancia senza dominio di emozioni, senza trattenere la commozione, lasciandola fluire mentre si citano brani con la mano sul cuore: ‘I sorrisi occupano tutto, i sorrisi non chiedono permesso a niente, si mettono lì, che tu lo voglia o no, e quando s’alzano le mura della disperazione trovano sempre una catapulta. Colpo oggi, colpo domani. I sorrisi c’hanno questo vizio bellissimo di assaltare le mura senza misurarne l’altezza’. 

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