Quando vado alla Biennale di Venezia, entro in un altro stato di coscienza. Guardo davvero, ascolto davvero, cammino lentamente, quasi un rito personale. Mi prendo il tempo per questa esperienza, per entrare in rapporto consapevole con quel che mi viene incontro. Ed è molto bello che le due sedi, alla Biennale, siano grandi e circoscritte – le Corderie dell’Arsenale e i Giardini – per cui le opere sono raccolte, concentrate; e lo sono anche i visitatori, che, pur presto stanchi, per via della densità estrema di idee e opere, riescono a restare attenti, raccolti e accompagnati dal luogo.

E’ stato scritto che l’Arte è una religione, e che gli artisti ne sono i sacerdoti (Francesco Bonami): condivido assolutamente. E’ una religione che dà la possibilità di prescindere, almeno per un poco di tempo, dall’opprimente sensazione di essere-noi-stessi, identificati con la nostra piccola vita, coinvolti e intrisi nella rete dei problemi soliti, quotidiani. Nell’entrare in rapporto con quel che non ci limitiamo a vedere di passaggio, ma che davvero guardiamo, ci dimentichiamo perfino dell’“illusione dell’io“, ci apriamo all’esperienza. Ci accorgiamo di quel che si muove in noi.

L’arte può attivare la possibilità di condividere esperienze sintetiche, preverbali, sensoriali; raggiunge le persone, quando ci riesce, attraverso corto-circuiti dell’immaginazione, saltando le spiegazioni razionali. Per cui non sciuperò l’esperienza ‘spiegandola’, cerco di limitarmi a descrivere una scelta minima di quel che mi ha colpito. Nelle prossime settimane condividerò qui le mie esperienze alla Biennale di quest’anno, che resta aperta fino al 24 novembre.

Entrando alle Corderie dell’Arsenale – un luogo in cui emoziona entrare, ed anche se fosse completamente vuoto – mi colpisce per prima cosa un enorme modello del ‘Palazzo enciclopedico‘ dell’artista autodidatta Marino Auriti: avrebbe voluto ospitarvi tutte le conquiste dell’umanità, sognando (nel 1955) la conoscenza universale. E’ l’opera che da il nome alla Biennale di quest’anno.

Pochi passi dopo mi vengono incontro enormi ‘sassi’ appesi a mezz’aria (dell’artista Phyllida Barlow): amo la forza di gravità, mi pare rassicurante, un’amica che sta dalla mia parte.

Poco dopo mi si para davanti un intrico di rami e terra: una specie di enorme ‘pezzo di bosco’ (di Petrit Halilaj, Kosovo) che invita ad entrare (si, mi sento ad un tratto Cappuccetto Rosso, persa, titubante); entro, malgrado l’iniziale esitazione; inspiro l’odore della terra bagnata, ascolto il cinguettare di uccellini (non so se sono una registrazione o sono veri), un percorso breve quanto intenso. Mi fermo, dentro a questo intrico, umido e fresco; lo sento: è un luogo sacro, magico. Invita a restare.

Esco, rientro; torno sui miei passi, rientro di nuovo; annuso, ascolto, sono davvero qui, e non persa nei miei soliti pensieri – sento una gran gioia, poi mista subito al sordo dispiacere della consapevolezza: prima o poi dovrò andarmene di qui. Da questo strano pezzo di realtà, da questa sintesi di ‘bosco’ dove riesco ad esserci davvero, e a provare perfino pura gratitudine per questo ‘esserci’: eccolo, il famoso qui e ora. E, prima o poi, dovrò andarmene anche da questa vita. Nessun ‘parlarne’ può ‘spiegare’ l’esperienza.

Le cifre sono finite (da 0 a 9) eppure con esse esprimiamo ogni quantità, senza limite: all’’ultimo’ numero possiamo sempre aggiungere ‘uno’; le parole sono infinite, come i sogni di noi esseri umani, e le nostre ‘conoscenze’. E queste in fondo non sono una forma speciale di sogno, quello di poter controllare l’esistente, almeno ‘sapendo’?

Il tentare di dar loro forma compiuta e di ‘contenerle’ è così tranquillizzante che le vogliamo condividere e raccontare in parole, e raccogliere in spazi appositi, i musei. Il Palazzo Enciclopedico è il Museo Globale, la nostra mente interconnessa, capace di entrare in risonanza con le altre, e che, almeno qualche volta, se ne accorge.

 

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