Ho passato gli ultimi giorni a leggere AristoDem – discorso sui nuovi radical chic, un caustico pamphlet firmato da Daniela Ranieri (l’editore è Ponte alle Grazie) in uscita il 6 giugno nelle librerie. E leggendolo ho pensato a tante cose che adesso cercherò di mettere ben in ordine.

La prima è una frase tratta da La notte di Michelangelo Antonioni. La notte è un film che preconizza l’avvento di questa nuova razza padrona, che ne coglie lo spirito agli albori (il film è del ’61, la definizione “radical chic” compare per la prima volta nove anni più tardi nel titolo di un famoso libro di Tom Wolfe, il padre del New Journalism, sottotitolato nella traduzione italiana Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto), che ne dipinge con pennellate secche alcune caratteristiche che nelle successive evoluzioni della specie rimarranno immutate. C’è per esempio ne La notte, a un certo punto, una scena in cui il personaggio di Valentina, una giovane Monica Vitti, figlia di un ricco industriale, rivolgendosi a Lidia (Jeanne Moreau) dice: “Sono piena di vizi. Ma senza praticarne nessuno”.

Ecco. Il libro di Daniela Ranieri è un dettagliato elenco di questi vizi, basta scorrere l’indice e ci si accorge che il discorso sui nuovi radical chic muove per l’appunto da qui. Da questi vizi. Che, tuttavia, non sono la pratica di piccoli peccati commessi per il piacere, ma l’interpretazione che i radical chic ne danno, la ricerca di un significato che il più delle volte serve a sovvertirne il senso comune.

Prendiamo i soldi. I nuovi radical chic – come la Luciana protagonista del pamphlet, “ex trasgressiva eversiva militante irriverente figura scomoda del teatrino artistico romano ancora unto di aristocrazia ma già lavato dal sapone del popolo” – pur essendo ricchi (molto) di loro, ostentano un disprezzo formale per il denaro. Spendono a più non posso per cibo, vini, viaggi, abbigliamento, oggetti per la casa (tutti rientranti in una speciale categoria anticonformistica). Il denaro è il pilastro su cui si fondano le loro esistenze, è il vizio principale, quello che serve a soddisfare tutti gli altri vizi che da esso derivano. Eppure il denaro viene dissimulato attraverso pratiche da pauperismo ideologico: quei cibi, quei vini, quei viaggi, quell’abbigliamento, quegli oggetti per la casa, devono essere materia di una reinterpretazione che ne giustifichi la scelta. Reinterpretazione che quasi sempre sfocia apertamente nel ridicolo, in una dimensione surreale e comica, che Daniela Ranieri riesce a restituire attraverso una scrittura prodigiosa.

C’è poca politica e molto life style. Il perché è presto detto: la frivola ideologia di questa borghesia pseudo-intellettuale, che un tempo faceva riferimento al radicalismo di sinistra, oggi sembra aver abbandonato le posizioni in favore di certi mondialismi d’accatto, esotismi new age, ecologismi massimalisti e via discorrendo, in una pasta in brodo di ismi utile solo a riempire uno spaventoso vuoto esistenziale e sociale (“Forse a questo si è ridotta la lotta di classe” – si legge in un passaggio nodale del libro – “un risentimento trattenuto dalla speranza di esserne, prima o poi, gli oggetti indigesti e non i soggetti digeriti”). Gli AristoDem sono pieni di vizi, appunto, senza praticarne (di fatto) nessuno.

È un libro da leggere, questo, anche per ragioni che non sono strettamente correlate all’argomento di cui tratta. Perché pone una questione sul genere, alternando il passo da pamphlet letterario alla dimensione della narrativa (Daniela Ranieri è già autrice di un corposo romanzo, Tutto cospira a tacere di noi, uscito l’anno scorso sempre per Ponte alle Grazie), intervallando i capitoli in scene in cui gli aristo-democratici si profondono in dialoghi fulminanti, e in parti di puro approfondimento antropologico. Perché la sua autrice ha tutti i titoli per inserirsi nella migliore tradizione della critica sociale alla Flaiano e Arbasino. Perché è un libro brillante, virulento, surreale, istrionico, in cui si ride molto, ma che alla fine lascia a sedimentare una sensazione ambigua, un sospetto, quasi una rabbia fatale.

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