La frase in calce ai verbali si ripete monotona. Recita: “Non nutro sospetti su alcuni, non avendo mai ricevuto richieste estorsive”. Nel frattempo, dal gennaio 2010 ad oggi sono 300 gli episodi incendiari. Bruciano auto, ma anche cantieri, pale meccaniche. Ma nessuno denuncia, nessuno sa, né immagina. E dunque? “Spesso ci sembra di indagare contro le vittime”, racconta una fonte qualificata. Di più: “Emerge una predisposizione da parte degli imprenditori di accettare qualsiasi cosa pur di guadagnare”. Nel frattempo, in meno di 24 mesi, i macabri roghi hanno illuminato “la conca d’oro” della ‘ndrangheta alla milanese. Fiamme di mafia, che seguono moventi e metodi: dalla classica tanica di benzina, alla stoffa nel serbatoio dell’auto, alla diavolina liquida innescata con la diavolina solida fino alla classicissima bomba carta.

La fotografia emerge da un incredibile lavoro di analisi messo sul tavolo dai carabinieri di Abbiategrasso, Corsico e San Donato Milanese. Una lunga costola di territorio che, come tutte le altre macro-aree di Milano, dal 2009 viene monitorata dalle forze dell’ordine su input del capo della Dda Ilda Boccassini. Dalle stazioni locali i rapporti mensili atterrano sulle scrivanie del Ros e della Dia. Si monitora per non perdere il senso. Si annotano nomi ed episodi. E al di là di tutto si capisce una cosa: in Lombardia esiste un’area dove la mafia la si respira giorno dopo giorno. Con buona pace di blitz, arresti e sequestri di beni.

Siamo a sud-ovest della città. Hinterland in fondo ricco e non degradato. Il filo rosso corre tra i comuni di Assago, Cesano Boscone, Corsico, Trezzano sul Naviglio e Buccinasco. Una lunga trama che, iniziata a ridosso dei Settanta, è in continua evoluzione. Perché qui le cosche calabresi possono contare su radici profonde e radicate.

Risultato: in carcere padri, zii e cugini, il testimone passa ai giovanissimi. Poco più che ventenni, pressoché incensurati, fatto salvo per piccoli episodi di spaccio, le nuove leve si esercitano al comando. Sulle spalle cognomi (e nomi naturalmente) pesanti: Trimboli, Molluso, Papalia, Barbaro, Agresta, Catanzariti, Perre. Nella gerarchia mafiosa stanno tutti ai piani alti. A Milano e in Calabria. Nascono a Locri o a Platì, altri addirittura qui al nord. Alcuni scendono verso la casa madre per abbeverarsi alle sapienze della ‘ndrine. Quindi risalgono, portando ordini e soldi. Fiumi di denaro da gettare in auto da corsa, lussi vari e droga. Tanta: da trafficare, spacciare e consumare.

Nuove abitudini, dunque. Almeno a scorrere la storia criminale dei fratelli Papalia: Domenico, Antonio e Rocco. Per oltre vent’anni (fino al 1997), il vero cda della ‘ndrangheta al nord. Gente che la droga (eroina prima, cocaina dopo) la trafficava (a quintali) ma non la sniffava. Oggi stanno in galera. Ma dal carcere gli ordini passano. Prendete il figlio di Antonio, di nome Domenico, anche lui in prigione (si consegnerà nel 2011 dopo un anno di latitanza direttamente al carcere di Pavia), ma fino ai 18 anni (era il 2001), ha vissuto la vita di un ragazzo normale (oratorio, sport e amici). Da maggiorenne, però, tutto cambia: la ‘ndrangheta se lo prende. Imparerà a fare il boss. Quindi l’ordine d’arresto, la latitanza e la condanna (poca roba: cinque anni).

Ma se il comando nella ‘ndrangheta consolida e unisce generazioni, qui in Lombardia qualcosa, rispetto al passato, è cambiato. Oggi si spara di meno. “I conti si risolvono con gli incendi – racconta la fonte – . Ma certo lo step successivo sono le armi”. Nel frattempo il 3 maggio 2012 a Buccinasco è andata a fuoco l’auto di uno dei figlio di Antonino Zacco, detto Nino il Bello. Palermitano, legato a Cosa nostra, negli anni Ottanta fu uno dei registi della maxi-raffineria di Alcamo. Sotto la Madonnina, per anni, ha tessuto rapporti e intrecciato business. Arrestato nella Duomo connection (1990: l’indagine svelò per la prima volta i rapporti tra mafia e politica in Lombardia). Dopodiché solo anni di carcere, oggi agli sgoccioli. Nino il Bello sta per uscire, i suoi due figli (anche loro con inciampi giudiziari) già lo sono. E l’auto bruciata? “Un segnale”. Tradotto: Buccinasco è roba dei “calabresi”. La pista è questa. Ma c’è da indagare.

Lo si è fatto, ad esempio, a Fizzonasco, frazione di un paese dell’hinterland milanese. Periferia della periferia. Industriale, ricca, a suo modo, operosa certamente. Tra il 2010 e il 2011, almeno dieci auto vanno a fuoco. Non in strada, ma all’interno delle aziende. S’indaga per estorsione. Le vittime non recitano a soggetto, ma seguono il rigoroso copione: “Mai ricevuto minacce”. Alla fine ci saranno arresti, ma non per i roghi. In carcere finiscono alcuni membri della famiglia Gallace legata ai clan di Guardavalle (Catanzaro). Capo d’accusa: truffa.

Oltre Fizzonasco, verso Milano, la cartina aggancia Rozzano, uno dei comuni più cementificati d’Italia. Quaranta episodi solo nel 2010. Cifre che raccontano storie di controllo del territorio. “Si tratta di piccole bande”, precisa la fonte. Nazionalità? Italiana per lo più. A far da corollario un risiko di rapporti mafiosi: da Cosa nostra alla camorra alla ‘ndrangheta.

Brucia anche Trezzano sul Naviglio, un tempo base dei seguaci di Luciano Liggio: imprenditori e colletti bianchi che tra gli anni Settanta e Ottanta hanno costruito e riciclato il denaro dei sequestri prima e della droga poi. Oggi, invece, nel mirino ci sono le imprese della famiglia Passafaro, gente calabrese (di Isola Capo Rizzuto). Il 18 marzo 2012 esplode una bomba carta davanti alla pasticceria “80 voglia di te”. Passafaro finisce nel mirino già a gennaio 2011. Luogo Binasco, bruciano due panifici.

Ma Binasco è ben oltre l’hinterland. Qui si corre verso Pavia e il Ticino. La ‘ndrangheta si allarga a cerchi concentrici. Segue il business della speculazione edilzia e insegue la tranquillità. “Da tempo – dice la fonte – molti boss si sono trasferiti in queste zone”. Gente di Platì o di Locri, come Giuseppe Trimboli, classe ’83 e una parentela con i Papalia, che da Buccinasco va a Gudo Visconti e a Casorate Primo. Qui, in via Cesare Battisti, lo arrestano nell’aprile scorso. In casa un etto e mezzo di coca purissima e una 7,65 con caricatore inserito. Dritto in carcere a Pavia. Tre giorni fa la doccia fredda: accusa di omicidio. Trimboli è indiziato di aver ucciso l’albanese Sali Kutelli il 14 gennaio 2012 davanti all’oratorio del paese. Pista privilegiata: affari di droga. E con gli affari delle cosche si allargano anche i roghi. Tra ottobre e novembre 2011 bruciano capannoni e pale meccaniche. Zona: Besate.

Comuni, paesi, frazioni. Oggi sta qui dentro, in questo risiko complesso e ancora troppo lontano dalle cronache nazionali, la storia futura della ‘ndrangheta in Lombardia. Dei suoi fuochi e delle sue connivenze. Il tutto con buona pace di quell’imprenditoria lombardissima che “non nutre sospetti”, che “non riceve minacce”.

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