Prova generale di rivolta oppure dimostrazione di forza? Difficile spiegare in maniera univoca il blocco stradale inscenato oggi dai lavoratori dell’Ilva di Taranto. Nello stabilimento siderurgico più grande d’Europa si sparge la voce di un imminente arrivo dei carabinieri che, su disposizione della magistratura ionica, dovrebbero sequestrare gli impianti ritenuti inquinanti. Gli operai lasciano i loro reparti e invadono la carreggiata della statale 100 che collega Taranto a Bari. Anche sulla 106 per Reggio Calabria e la strada statale 7, centinaia di dipendenti bloccano il traffico e mandano in tilt la circolazione. L’accesso e l’uscita dalla città sono praticamente azzerati: si parla di quasi cinquemila lavoratori a prender parte alla protesta. I carabinieri non arrivano, non c’è alcun provvedimento per il momento. Così, dopo la prima la decisione di raggiungere la prefettura, in corteo fa dietrofront: gli operai si riuniscono in assemblea permanente in fabbrica. La manifestazione ‘flash’ sembra non avere un obiettivo reale, ma solo formale: dimostrare come, in preda alla paura, gli operai possano bloccare in pochi minuti una città.

La tensione a Taranto è ormai ben oltre le stelle: i lavoratori dell’Ilva temono che l’intervento della magistratura possa significare perdita del posto di lavoro e così da settimane chiedono aiuto. Hanno risposto tutti al loro appello: politici, amministratori, sindacati, Confidustria, docenti universitari e medici. Tutti hanno lanciato il loro messaggio a difesa degli operai. Tutti, anche il nuovo vescovo di Taranto, monsignor Filippo Santoro, hanno accolto positivamente l’intervento del Governo, le nuove disposizioni della Regione e ora confidano nella decisione “responsabile” della magistratura. Lo stesso ministro Corrado Clini ha dichiarato che il blocco degli impianti in questa fase sarebbe una contraddizione. Quasi che tutte queste promesse siano la prova tangibile che l’Ilva non sia più una fabbrica inquinante.

Foto-reportage di Giuseppe Carucci

L’obiettivo dei tanti che prendono la parola forse non è quello di difendere i lavoratori dal rischio della malattia, ma dalla certezza della disoccupazione. Perché la salute dei lavoratori doveva essere tutelata anni fa. Come ad esempio nel 1982, quando la prima sentenza condannò i vertici dell’allora Italsider, seppur per un reato minore. Oppure nei vari processi che si sono susseguiti fino al 2007. Nel corso degli anni il procuratore Franco Sebastio ha scritto diverse lettere alle istituzioni per chiedere, al di là delle eventuali responsabilità penali, quali misure intendessero intraprendere per risolvere la allarmante situazione ambientale che emergeva dalle indagini. La prima missiva è del 1998, la seconda del 2002, la terza di qualche mese fa. 

Ma ancora oggi il compito di risolvere la questione grava su un magistrato, come se le istituzioni e i sindacati avessero scaricato sulle spalle del gip Patrizia Todisco il compito di trovare una soluzione all’eterno dilemma che rende inconciliabili diritto al lavoro e diritto alla salute. “La diffusa tendenza – scriveva il giudice Martino Rosati nelle motivazioni della sentenza del 2007 – ad affidare esclusivamente al giudice penale la risposta statuale ai fenomeni di illegalità, e quindi a gravare la sentenza penale di contenuti, funzioni e di aspettative che non le sono propri, non può e non deve essere condivisa”. A ore potrebbe arrivare la decisione del gip e con essa le nuove, probabili manifestazioni. Contro il giudice, non contro chi avrebbe dovuto evitare che si arrivasse a questo punto.

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