Fernando LugoÈ bastata un’ora, agli illustri membri del Senato paraguayano, per decretare, venerdì scorso, con 39 voti contro 4, la destituzione di Fernando Lugo. Ed il giorno prima ancor meno ci aveva messo la Camera dei Deputati per sancire – con un’ancor più soverchiante maggioranza, 76 a 1 – la messa in stato d’accusa del presidente. Reperire dati attendibili in materia non è ovviamente facile, ma assai probabile è che sia trattato del processo d’impeachment più fulmineo della storia dell’umanità. Tanto fulmineo e tanto scontato, in effetti, da assomigliare ad un classico golpe istituzionale.

E tuttavia, a dispetto d’una tanto apparente celerità, un fatto è certo: quella di Fernando Lugo è stata, in realtà, una caduta al rallentatore. Lenta, lentissima. E lunga quanto lunga è stata la sua presidenza. Perché Fernando Lugo, da molti chiamato “il vescovo dei poveri”, ha in effetti cominciato a cadere lo stesso giorno in cui, il 15 di agosto del 2008, è trionfalmente entrato al Palacio de los López.

O, ancor meglio, lo stesso giorno in cui, nell’aprile dello stesso anno, le urne hanno rivelato i numeri che gli avevano garantito la vittoria. Fernando Lugo, popolare vescovo della diocesi di San Pedro, noto per la passione con la quale, in una delle più misere zone del paese, aveva difeso i diritti dei contadini senza terra, aveva vinto grazie all’appoggio di un’assai spuria coalizione, la Alianza Patriotica para el Cambio, tenuta insieme da un generico programma di rinnovamento sociale e da uno “storico” obiettivo: strappare, dopo oltre sessant’anni (35 dei quali spesi sotto la dittatura di Alfredo Stroessner) il potere dalle grinfie di quel Partido Colorado che negli anni del “Grande Benefattore” le elezioni le vinceva con un numero di voti superiore a quello dei votanti. E che, ritornata la democrazia dopo il golpe dell’89, a vincere aveva continuato, nel nome dell’oligarchia agraria, sia pur con più modeste percentuali.

Lugo aveva infine sconfitto “los colorados” con il 40 per cento dei voti, promettendo – in un paese dove il 2% della popolazione possiede l’85 per cento della terra – una “riforma agraria integrale” ed un’implacabile lotta alla corruzione. Ma quasi i due terzi dei voti raccolti dalla sua coalizione (ed altrettanti deputati) appartenevano, in realtà, non al suo gruppo ed ai movimenti sociali che l’appoggiavano, bensì al più tradizionale ed improbabile dei suoi alleati: quel Partito Liberale Radicale Autentico (PLRA) che, pur vantando una più che onorevole storia d’opposizione alla dittatura stroessneriana, mantiene con il potere reale (l’oligarchia agraria, per l’appunto, e le mafie del contrabbando) legami appena più tenui di quelli del Partido Colorado. Fernando Lugo – l’uomo della svolta, l’uomo della speranza, il vincitore – non era, in effetti, che un’anatra zoppa.

E zoppicare è quello che Lugo ha fatto per tre anni, perduto tra la retorica della giustizia sociale e la realtà d’un pressoché assoluto immobilismo. Dal 2008 ad oggi, in Paraguay, non solo non c’è stata riforma agraria (integrale o meno), ma le cose sono, in termini di distribuzione della terra, ulteriormente peggiorate. La grande, storica rivendicazione dei senza terra paraguayani era la distribuzione degli 8 milioni di ettari – il 33 per cento della terra coltivabile – illegalmente acquisito dall’oligarchia negli anni di Stroessner . Non un solo metro quadrato è stato in questi tre anni recuperato. E, anzi, a questa ingiustizia un’altra si andata sovrapponendo: quella dell’acquisizione nell’alto Paraná, soprattutto da parte di grandi fazenderos brasiliani, di enormi estensioni di terreno da dedicare – con la consulenza di grandi multinazionali come Monsanto e Cargill – alla coltivazione della soia transgenica per esportazione.

La soia – un tipo di coltivazione che, alla lunga, porta alla desertificazione –  ha garantito negli ultimi anni al Paraguay una crescita stellare del 15 per cento (crollata lo scorso anno  a causa di una siccità che, presumibilmente, preannuncia il futuro). Ed è diventata, questa fittizia fonte di ricchezza, il nuovo padrone, il lato oscuro dei brillanti numeri che – in Paraguay ed altri paesi latinoamericani – hanno di recente illuminato un’illusione di benessere.

L’impeachment di venerdì è arrivato, per “il vescovo dei poveri”,  alla fine di questo lungo, inesorabile declivio. Ed è arrivato, prevedibilmente, non come risultato d’uno scontro, ma come conseguenza d’un ultimo compromesso, il peggiore, forse, della storia di questa caduta in slow motion. Dopo la strage di Curuguaty – 17 morti in uno scontro a fuoco tra polizia e contadini che occupavano il latifondo di Blas Riquelme, un ex senatore colorado – Lugo aveva cacciato il ministro degli interni, Carlos Filizzola, uno dei pochi progressisti rimasti nel suo governo, e l’aveva sostituito con un vecchio rottame stroessneriano: il colorado Rubén Candía Amarilla. I suoi “alleati” liberali si sono sentiti traditi. I colorados hanno avvertito un tentativo di dividere le loro fila in vista delle presidenziali dell’aprile 2013. Ed insieme lo hanno destituito. Un’ora di processo, e via.

Nel 1936, appena terminata la carneficina della guerra del Chaco con la Bolivia, la più classica delle guerre tra poveri, Augusto Roa Bastos aveva scritto in “Figlio dell’uomo”:  “Il grido terra, pane e libertà risuona in tutto il paese e si risveglia dipinto, con grandi ed affrettate lettere, sulle pareti delle città…”.

Fernando Lugo è caduto. Resta, quasi ottant’anni dopo, quel grido inascoltato.

(Foto: LaPresse)

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