Marzo 1994. Ho appena compiuto diciotto anni: finalmente anch’io posso votare. Le famose elezioni del ’94, quelle della discesa in campo di Berlusconi. Mi preparo al voto andando a scuola da Montanelli: dopo l’addio a Il Giornale ne seguo gli interventi su tv e quotidiani. Arrivo a compulsare con entusiasmo la sua ultima creatura, quell’effimero capolavoro di nome La Voce, uscito proprio alla vigilia dell’appuntamento elettorale.

La Voce: una vicenda editoriale che finisce male. Il giornale chiude dopo un anno, Berlusconi trionfa alle elezioni e rimarrà protagonista indiscusso della scena nazionale, il liberalismo sostenuto da Montanelli si conferma per l’ennesima volta minoritario nel nostro Paese. Ma La Voce rimane ai miei occhi un’esperienza indimenticabile. Perché è indimenticabile il coraggio di un ottantacinque anni che si mette in gioco per difendere dei principi, delle idee, una cultura.

Cultura: è questa una parola che talvolta si dimentica quando si parla di Montanelli – e lui stesso, a sentirla usare a sproposito, come sto forse facendo adesso, avrebbe messo mano alla fondina della pistola. Tutti ci ricordiamo le sue lotte: contro il comunismo, contro la partitocrazia, contro il berlusconismo. Ma le ha fatte perché possedeva una precisa visione della società, della politica, dell’economia: liberale, di destra, conservatrice. Etichettatela se la volete etichettare, ma si tratta sempre di grande cultura.

A questo proposito basti pensare ad alcuni episodi della sua carriera giornalistica, forse non i più importanti, ma sicuramente significativi. Sul Borghese di Longanesi difende Giovannino Guareschi, la cui condanna nel processo sul falso carteggio attribuito a De Gasperi aveva suscitato la gioia di un gruppo di scrittori: “Finché (Guareschi) è lì dentro, egli per me è l’uomo che per primo, più risolutamente e più coraggiosamente di ogni altro, nel momento più pericoloso, ha segnato la riscossa di certi valori nazionali, ai quali ha reso servigi molto più grandi di quelli che abbiamo reso tu, Montale ed io, caro Lupinacci. Io me ne ricordo. Tu e Montale, no: ecco la differenza”. Su Il Giornale dà spazio a molti prestigiosi intellettuali italiani e stranieri. Tra i tanti: Rosario Romeo, Renzo De Felice, Nicola Matteucci e Raymond Aron. Fa conoscere il pensiero di studiosi quali Karl Popper e Milton Friedman. Tutti loro ritorneranno nei miei studi universitari. Alcuni mi accompagnano ancora oggi. Senza dimenticare che è Montanelli a “introdurmi” a Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini ed Ernst Junger.

L’elenco dei suoi meriti potrebbe proseguire all’infinito: la difesa del ruolo fondamentale della classe insegnante nel progresso civile del nostro Paese; la capacità di dialogare con i giovani e di valorizzarli; l’attività di storico.

Niente male per un giornalista: in un Paese affamato di cariche e prebende, rifiutò la nomina a senatore a vita. Ma come lo stesso Montanelli scrisse di Mario Scelba: “Meglio galantuomo a vita”.

Francesco Carbonari