A volte una foto parla più di una biografia. Cristallizza un fatto, lo consegna alla storia, estraendolo dalla camera oscura delle opinioni. E restituisce agli occhi dell’osservatore una sorta di finestra privilegiata sugli eventi. A chi non ha potuto conoscere in vita il giornalista Indro Montanelli, viene in soccorso proprio una foto che sintetizza il suo pensiero e la sua azione. Lo ritrae seduto su una pila di libri, con una macchina da scrivere sulle ginocchia. Le spalle chine sulla tastiera della ‘lettera 22’. Quel gesto naturale di inarcare la schiena, unica forma di sottomissione che si è concesso nella sua lunga e tumultuosa esistenza. La servitù totale alle notizie, quand’anche la verità stonasse con le aspettative di un politico, di un editore, di un direttore. E quella parlata toscana, di Fucecchio, che invece non stonava affatto, ma faceva da melodico contraltare agli strali corrosivi dei suoi articoli.

Un fiume in piena d’inchiostro che attraversa i periodi cruciali della storia d’Italia del Novecento, ma che si spinge anche oltre i confini nazionali. Il reportage della campagna militare in Eritrea dopo avervi partecipato come soldato, la guerra civile spagnola introdotta da un sarcastico incipit sul caldo, unico nemico dei franchisti, che gli vale la cancellazione dall’albo dei giornalisti ad opera del Minculpop. O la testimonianza dal fronte ungherese della rivolta repressa dai carri armati sovietici. “Perché gli operai di Budapest seguirono il corteo degli studenti quando si formò, quel famoso 26 ottobre del ’56? Perché quegli studenti erano i loro figli, ma i loro figli veri, non i loro figli in senso traslato”, spiegherà nel corso di un’intervista, ponendo l’accento su quella solidarietà fra classi sociali, impensabile nei paesi occidentali animati dal capitalismo. Una ricostruzione della rivolta che documenta l’impossibilità di manipolare un fatto o plasmarlo a seconda del proprio credo ideologico. Lui, che ideologicamente si definisce anticomunista e ‘anarco-conservatore’, riesce a essere inviso al regime fascista, ai democristiani che invita a votare turandosi il naso, e all’area della sinistra della contestazione. In perenne direzione ostinata e contraria, per dirla con le parole di Faber, anarchico dall’altra parte della barricata.

Il conformismo, seppure poggi su ragionevoli basi, lo irrita e stimola il suo senso di sfida. Intercetta l’odio cieco del terrorismo rosso che gli scarica otto pallottole sulle gambe. Una volta conclusa la guerra all’eversione, sorprendente come al solito, stringerà la mano ai suoi attentatori. Ma è l’attentato alla libertà d’informazione che non digerisce. Una volta che Silvio Berlusconi, suo editore di fatto, gli comunica la necessità di trasformare ‘Il giornale’ in un foglio di partito, lascia il quotidiano per avventurarsi nella fondazione de ‘La voce’. Esperienza fugace, fra le ultime istantanee di chi ha scelto di “tenere il potere a una distanza di sicurezza”.

Giuseppe Malaspina