E’ una lezione esemplare quella che il Consiglio di Stato con una bella Sentenza depositata lo scorso 2 febbraio ha impartito alla Presidenza del consiglio dei Ministri ed alla Siae, la Società italiana autori ed editori, una lezione di etica e democrazia prima ancora che di diritto.

La storia – forse qualcuno la ricorderà – riguarda l’epopea, tutta italiana, del c.d. “contrassegno Siae”, la pecetta adesiva argentata attraverso la quale, nel secolo della Rete e nell’era del digitale, la Siae continua a raccontare di voler difendere il mercato dalla pirateria audiovisiva, incassando, frattanto milioni di euro ogni anno.

Qualche anno fa, era il 2007 [n.d.r. rimettere in fila le date di vicende come queste dà il polso della lentezza della giustizia in Italia] la Corte di Giustizia dell’Unione Europea decise che la disciplina italiana relativa all’obbligo di apposizione del bollino su tutti i CD e DVD contenenti opere dell’ingegno era illegittima e, evidentemente, con essa l’obbligo di versare alla Siae l’odioso balzello connesso al rilascio della pecetta.

Poco conta, a questo punto, ripercorrere le ragioni di quella decisione a seguito della quale, tuttavia, la Siae avrebbe dovuto restituire a migliaia di imprenditori italiani un fiume di denaro – decine di milioni di euro – incassato, negli anni, in forza della normativa dichiarata illegittima dalla Corte di Giustizia.

Ciò che conta è, invece, che a seguito di quella decisione e mentre le prime richieste di ripetizione delle somme versate cominciavano a pervenire in Siae, quest’ultima con la connivenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ottenne il varo di un nuovo Regolamento – in sostituzione di quello appena dichiarato illegittimo dai giudici europei – nel quale venne inserita una norma che rappresentava un’autentica aberrazione giuridica, evidente a chiunque salvo che a Siae che l’aveva dettata ed al Governo che l’aveva tradotta in un atto amministrativo.

La norma prevedeva, semplicemente, che la Siae non avrebbe, in nessun caso, dovuto restituire alcunché agli imprenditori dai quali aveva incassato – negli anni di vigenza della disciplina dichiarata illegittima dalla Corte di Giustizia – decine di milioni di euro.

“Semplicemente” questo, e, naturalmente, semplicemente assurdo: come dire chi ha avuto ha avuto e chi ha dato, dimenticando, però, che a dare erano stati migliaia di imprenditori italiani ed a prendere – milioni di euro e non già qualche nocciolina – solo una strana creatura metà privata e metà pubblica, chiamata Siae.

Oggi, finalmente, dopo quasi cinque anni di battaglia giudiziaria il Consiglio di Stato ha fatto giustizia – o almeno iniziato a fare giustizia – dichiarando illegittima la disposizione con la quale il Governo era corso in soccorso delle tasche della Siae ed aveva provato a salvare quest’ultima – quasi che il suo ricco portafoglio valesse più di quello delle centinaia di imprenditori italiani che, negli anni, erano stati costretti a versare milioni di euro in forza di una disciplina inutile ed illegittima.

Ed ora?

Ora toccherà ai giudici tributari che, di recente, la Corte di Cassazione ha ritenuto competenti in materia, data, appunto, la natura di “balzello” dell’obbligo di apposizione del contrassegno, decidere se – come appare ovvio e ragionevole a chiunque – Siae dovrà, finalmente, restituire il maltolto ovvero il fiume di denaro – una media di circa dieci milioni di euro all’anno – illegittimamente incassati tra il 2000 ed il 2009, data nella quale – in modo del tutto incomprensibile – il Governo ha deciso di reintrodurre nel nostro Ordinamento l’obbligo di apposizione del contrassegno e, conseguentemente, di pagamento dell’odioso balzello a Siae.

Inutile aggiungere altro. Non rimane che stare a guardare ed augurarsi che, come accaduto sin qui, la giustizia – anche se con i suoi tempi – faccia il suo corso.

Resta, però, ancora l’amaro in bocca a dover registrare che un ente pubblico economico che dichiara di agire a tutela di un interesse collettivo e la stessa Presidenza del Consiglio dei Ministri abbiano tentato – e continuino a tentare rifiutandosi ostinatamente di restituire spontaneamente il maltolto – di giocare a fare i “furbetti” per sottrarsi all’obbligo – etico e morale prima ancora che giuridico – di restituire alle imprese italiane un fiume di denaro indebitamente incassato.

In un Paese normale, etica e legalità, imporrebbero a un ente pubblico economico come Siae di avviare immediatamente una procedura per la restituzione di quanto indebitamente percepito da onesti imprenditori, senza attendere che un giudice glielo ordini.

Questo in un Paese normale, nel quale essere “furbetti” è un titolo di demerito che genera discredito sociale ed essere onesti è un titolo di merito che genera stima ed ammirazione.

In Italia, oggi, non è così.

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