Eh sì tutto finisce. Finisce una delle poche manifestazioni culturali milanesi dedicate ai libri, Officina Italia, alla quinta e ultima edizione (20- 22 Ottobre, Palazzina Liberty, Largo Marinai d’Italia, Milano), e anche il tema del racconto con cui si chiude è la fine. S’intitola Abbandonare, è ambientato a Lipari, e l’ha scritto Antonio Franchini. Lo leggerà sabato sera, 22 ottobre, ultimo giorno di Officina Italia, che si è aperta giovedì con un attacco di Carlo Petrini alla giunta Pisapia sul tema dell’Expo. Antonio Franchini leggerà il racconto inedito – la formula di Officina è appunto la lettura degli inediti – al termine di una serata cui partecipano Paola Capriolo, Bruno Arpaia, Vincenzo Latronico e Francesco Bianconi dei Baustelle. Qualcuno dice che non sarà l’ultima edizione di Officina. Gli organizzatori, Alessandro Bertante e Antonio Scurati, dicono invece di sì. Tutto finisce perché le manifestazioni letterarie, spiegano, non diversamente dai movimenti letterari, hanno un senso compiuto proprio nel sapere chiudere in bellezza piuttosto che diventare una formula infinita e ripetitiva. Insomma: alzarsi da tavola prima di essere sazi. Abbandonare, il racconto di Franchi, potete leggerlo sul sito di Saturno in due puntate.

Abbandonare

di Antonio Franchini

Fu a Lipari che successe, l’isola della lucida ossidiana e della pietra pomice di cui si favoleggiavano distese bianche, che scivolavano fin dentro il mare. Ma io non le vidi e soprattutto la più famosa non trovai, quella da cui si diceva che ci si potesse rotolare, come da un pendìo nevoso, fino all’acqua trasparente, senza rischi, come nel borotalco. La discesa che mi trovai davanti era invece fitta di pietre, la polvere di pomice appena un velo, e a lasciarsi cadere da là chiunque si sarebbe scorticato a morte, ma forse era perché arrivavo troppo presto, mi dissi, era l’inizio di giugno.
Che sciocchezza, pensai subito dopo: la polvere sfarinata della pietra è forse soggetta alle stagioni? Si scalda come l’acqua d’estate?
Tornando deluso, su una strada assolata, incontrai un gatto piccolissimo. Era un micio appena nato, mi venne dietro, lo presi e lo carezzai, poi volevo lasciarlo in un posto protetto, che non c’era; c’era solo quella strada abbacinante e vuota che sembrava non portare in nessun posto, per cui mi domandai come ci fosse finito, quel gatto, in un luogo così senza ripari, senza nascondigli, senza niente.
Dovevo proseguire, perciò lo lasciai in mezzo alla strada. Ma come non aveva ripari lui, così ero senza vie di fuga io perché, quando cominciò a seguirmi, miagolando lamentosamente, non trovavo nessun posto, neanche una semplice curva dove svoltare, perché l’abbandono si consumasse senza traumi e senza rimorsi.
Il gattino prese a seguirmi tenendosi al centro della via e il suo lamento era amplificato fino a un’intensità insopportabile dal silenzio della strada vuota. Affrettai il passo e a un certo punto dovette accelerare anche lui, perché non mi abbandonava. Cominciai allora quasi a correre, non proprio a correre, perché mi vergognavo di correre per sfuggire a una minaccia così risibile, ma di buon passo, sì, di buon passo andavo, tuttavia non quanto sarebbe bastato a sperderlo.
Per un bel pezzo durò quello strazio, mi sentivo un assassino, un padre che abbandona i suoi figli, un uomo che affama la prole, ma io proprio non potevo tenerlo con me. Perché mi seguiva così? Continuammo a girare i tornanti di quella strada deserta e assolata finché arrivò una zona d’ombra a darmi respiro. Ombra significava alberi, cespugli, recessi. Mi voltai, il gatto dovette pensare che mi ero deciso a prendermi finalmente cura di lui e mi attese. Lo sollevai, il suo corpo tremava tutto, gli picchiava il cuore contro le costole. Lo alzai e lo deposi con cautela dietro il reticolato che bordava un orto. Da lì non poteva arrampicarsi per seguirmi. Me ne scappai senza voltarmi a guardarlo, neanche l’avessi schiacciato sotto le suole, ma contro il miagolio non potevo fare niente e da allora me lo sento risuonare nelle orecchie.

Il mio barista è un toscano poliedrico, rinascimentale. Dipinge quadri facili con i velieri nella tempesta, i nudi e i vasi di fiori, ma dipinge; suona la quinta di Beethoven, Stardust, la toccata e fuga di Bach e Yesterday su una tastiera elettrica che tiene dietro al bancone, ma suona; legge i libri che gli consiglio e gli porto io, ma legge.
Una mattina entrai nel bar più tardi del solito. C’era un altro avventore, al banco, e il barista me l’indicò con sollecitudine: «Sono contento di potervi presentare, è tanto tempo che lo volevo fare, perché sono convinto che voi avreste delle cose da dirvi, ognuno di voi mi ricorda un poco l’altro. Lui, Francesco, lavora nel mondo dei libri», disse presentando me. «Lui, Luca, è il mio amico musicista, musicista jazz».
«Veramente è un bel po’ di tempo», disse Luca, «che faccio più il lettore che il musicista».
«Ah!» esclamai io, perché non sapevo che dire e le presentazioni improvvise mi mettono in imbarazzo, ma questo signore aveva una faccia simpatica, che mi ricordava un’altra persona, poi mi venne in mente quale e conclusi che la faccia di Luca sembrava più simpatica in virtù di quella somiglianza. Stavo entrando nell’età in cui comincia a diventare difficile incontrare una persona che non te ne ricorda un’altra.
«Qual è quel bel libro che mi dicevi?» gli chiese il barista per avviare la conversazione.
«Ah, sì, la Trilogia di New York di Paul Auster. Quello sì, è un bel libro che mi sono proprio divertito a leggere».
«Ah, Paul Auster, certo», ripetei con aria competente, come uno di quelli che di Paul Auster sanno vita, morte e miracoli. In effetti qualcosa sapevo, per esempio che le persone brillanti lo chiamano Pollaster, con quella confidenza ironica che lascia intendere lunga frequentazione. Nessuno avrebbe detto che non avevo letto la Trilogia di New York.
Scoprimmo anche di avere un’amica in comune, io e il jazzista, la moglie di un altro mio amico che fa la cantante jazz. Anche questo era il segno che ormai, in una città di due milioni di abitanti, potevo risalire da una persona all’altra, potevo fare dei percorsi raccogliendo i capi di gomitoli lasciati cadere nei corridoi di un labirinto immenso dove tuttavia esistevano zone dove ero già passato.
È tanto, da quando mi occupo professionalmente di libri, che non entro in una libreria per comprarmi un libro, come il pasticciere che non mangia i dolci, ma uscendo dal bar ero contento al pensiero che al più presto sarei andato a comprarmi una copia della Trilogia di New York.
Desideravo proprio farlo e ne sentivo gioia perché col tempo diventa sempre più difficile avere davvero voglia di fare qualcosa.

Quello stesso giorno un collega mi aveva detto che mi sarei divertito a incontrare la vecchia scrittrice Giorgia e il suo ex marito Piero, altrettanto famoso pittore, per scegliere insieme le fotografie che dovevano corredare l’ultimo libro di lei.
Forse me l’aveva detto perché sinceramente convinto che la visita potesse procurarmi qualcosa di diverso dalla pena che era prevedibile e che infatti mi aspettavo.
Piero e Giorgia erano stati marito e moglie per trent’anni, poi lui l’aveva lasciata, poco prima che lei si avviasse a trasformarsi in una vecchia ingombrante e subito dopo che lui era diventato un artista di successo.
L’avevo chiamata più volte al mattino, per confermarle l’appuntamento: con i vecchi non si sa mai. Per quattro o cinque volte il telefono squillò a vuoto. La sesta volta lei rispose, ma non sentiva.  Continuava a ripetere pronto? pronto? e a emettere versi lamentosi.
La porta di casa me l’aprì un cameriere indiano, ma lei comparve subito alle sue spalle. Sembrava che l’avesse rincorso, come se non potesse resistere all’ansia.
«Accomodati, accomodati», mi disse, «ti devo fare strada. Qui c’è un sentiero da percorrere, un sentiero, altrimenti non si passa».
Il sentiero era tra pile di libri, di scartafacci, di riviste, di giornali, di vecchi schedari di metallo.
Non mi erano mai sembrati così funebri, i libri, così disperatamente inutili, carta morta. Già era un periodo che non sopportavo più le biblioteche, con tutti quei loro dorsi di volumi schierati, come militari in piedi su un infinito, inutile attenti.
Figuriamoci i libri ammonticchiati senz’ordine, come nelle fosse comuni, impossibili da riscattare, da mobilitare, anche volendo, per richiamarli al loro dovere: restituire il ricordo di una parola, di una frase, di un verso.
Piero era seduto sull’unico divano da cui le pile fossero state per l’occasione rimosse, forse dal cameriere indiano.
Piero, il famoso pittore, era un vecchio vestito come un artista giovane,  con le scarpe da ginnastica nere, i calzettoni a scacchi, i jeans, una camicia aperta e una giacca di taglio giovanile, che avrei avuto qualche problema a indossare io, in ufficio. E aveva il codino, un codino di capelli bianchi, dove l’età aveva appiccicato il suo smorto incendio di sfumature giallastre. Un’acconciatura con cui certi vecchi possono allo stesso tempo ostentare eccentricità, rievocare grazie settecentesche e mascherare stempiature. Aveva un aspetto ancora vigoroso e le sue esibizioni di giovanilismo potevano essere tipiche di quei vecchi che non sono stati veramente giovani quando dovevano, perché di solito chi è stato giovane davvero la gioventù l’ha bruciata e sepolta, non la rievoca più.
Che lui non fosse stato giovane quando doveva lo compresi sfogliando le fotografie.
Lei aveva preparato il tè, il tè e dei pasticcini dall’aspetto freschissimo che contrastavano con tutto il marcio di quelle torri di carta. I pasticcini sul tovagliolo bianco stavano in equilibrio precario  in mezzo alle scartoffie, e ancora più precario era l’equilibrio della teiera e delle tazze.
Anche lui mi ricordava qualcuno: un mio vecchio professore, uomo assai compiaciuto di sé, affascinante e superficiale.
«Prima di cominciare», disse Giorgia presentandosi con due pacchetti, «ho una sorpresa per voi, una sorpresa di carta».
«Posso aprirlo?» chiesi
Li aprimmo insieme.
«È bellissima», dissi. «Avevo proprio bisogno di un’agenda. Io ho sempre bisogno di agende».
Piero scartocciò la sua e la infilò in tasca senza dire niente, poi si riaccomodò sul divano.
«Così, ogni ogni volta che le aprite, penserete a me».
Piero afferrò il primo pacco di fotografie, slegando con attenzione lo spago che le teneva insieme.
«Vediamo un po’…».
«Vediamo, sì, questo libro sarà un libro bellissimo, sai?»
«Certo che sarà un libro bellissimo. Sono sicuro che sarà un libro bellissimo».
«È un miracolo avere qui quest’uomo», disse lei fissandolo e sedendosi di fronte a lui sul divano. «È un uomo molto importante. Non è mai libero».
«Posso togliermi la giacca?» domandai.
«Puoi toglierti quello che vuoi. Anche i pantaloni. Tanto, sotto avrai i boxer».
«Adesso, insomma…», sogghignò Piero continuando a sfogliare le foto. «Ho controllato la tua lista, eccola qui, ma molte delle foto che hai chiesto non ci sono…».
«Come non ci sono?».
«Sto rimettendo a posto l’archivio, lo sai. Ho tutto per aria… Qui, per esempio, leggo Ruth Welsh… Ma noi non abbiamo fatto nessuna fotografia di Ruth Welsh…».
«Come no?».
«La giapponese non ne ha trovata nessuna. La giapponese, sai, è scrupolosa, mi sta ristrutturando tutto l’archivio… ma tu poi, scusa, nel libro parli di Ruth Welsh?».
«Io? Io non lo so se parlo di Ruth Welsh, forse… oddio, forse ne parlo nell’autobiografia… Non so più dove ne parlo…».
«Però nella lista me l’hai messa».
«Sì, no… non l’ho messa, non lo so… non so più  niente, sto facendo troppe cose…»
«E poi mi hai segnato Max Ernst, ma lo sapevi benissimo che Max Ernst non l’ho mai fotografato. M’imbarazzava fotografare Max Ernst…».
«Questa, guarda questa», mi disse porgendomi una sua fotografia, «guarda qui com’ero bella… Non sono sempre stata un mostro».
«Se è per questo», disse lui sporgendosi appena a sbirciarla, ce ne sono decine molto più belle. Di ritratti tuoi ce ne sono almeno duemila in archivio».
«Lo so, sì, lo so…».
«Questa? Chi era questa?» mi vidi passare davanti una donna dall’acconciatura alta e un filo di perle al collo. Una foto d’inizio anni sessanta, forse.
«Non so chi è. Sarà stata una delle tue amanti, caro».
Lui la mise sotto alle altre senza dire niente.
«E questo? È quel pittore di Parma. Adesso non me ne ricordo il nome».
Sfogliava le fotografie con metodo, vidi un nudo a cavallo di una motocicletta, lo indicai debolmente, lui lo estrasse. Era una performance a Parigi nel sessantasette.
Avevano vissuto insieme trent’anni e per trent’anni lui aveva fatto fotografie di ogni loro viaggio, di ogni cena con gli amici, mostra, cinema, teatro. Adesso con aria esperta e fredda sfogliava e tirava fuori i provini, fogli con decine di fotografie minuscole, da ingrandire e sviluppare, circolettate di rosso. Ogni tanto tra le stampe s’infilava anche qualche negativo, come un viscere pendulo, dimenticato dall’imbalsamatore dentro al corpo secco.
Trent’anni a fare fotografie di artisti, pittori, scrittori, attori, musicisti.
«Trent’anni siamo stati assieme prima che lui si accorgesse che non gli andavo più bene», mi aveva già confessato lei più di una volta.
Era una sua ossessione quell’abbandono. E poi ripeteva a tutti «quella gli faceva i pompini, ecco perché se n’è andato, perché quella gli faceva i pompini!», parlando della donna per la quale lui l’aveva lasciata.

continua…

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