C’è l’accordo sul debito USA. Lo ha annunciato Barack Obama, secondo cui l’intesa mette fine alla “crisi che Washington ha imposto all’America” ed evita un default che avrebbe avuto un impatto “devastante”. Il presidente, che ha ringraziato gli americani per aver fatto pressione sui parlamentari con e-mail, telefonate, messaggi Twitter, ha detto che “questo non è l’accordo che avrei voluto. Ma è il compromesso di cui abbiamo bisogno per ridurre il deficit”. Obama è parso particolarmente soddisfatto. L’intesa lo mette infatti al riparo da pericolose turbolenze dell’economia in tempi di campagna presidenziale. Mentre il presidente parlava dalla Casa Bianca, Harry Reid, leader democratico del Senato, e lo speaker repubblicano della Camera John Boehner cercavano già di “vendere” l’intesa ai deputati e senatori più riottosi. Incontri con i rispettivi gruppi parlamentari sono in programma lunedì mattina, in modo da arrivare a un voto positivo prima della mezzanotte del 2 agosto, quando è previsto il temuto default del governo federale.

L’accordo prevede un pacchetto di tagli alla spesa per almeno 2400 miliardi nei prossimi 10 anni, una Commissione capace di offrire un piano di riduzione del debito entro il Giorno del Ringraziamento (23 novembre) e due diverse fasi di innalzamento del tetto del debito. In un primo tempo il tetto verrà alzato di 900 miliardi (ma 400 miliardi verranno aggiunti immediatamente, per evitare il default), con tagli alla spesa per 917 miliardi. Una seconda fase prevede un ulteriore espansione del debito, per una cifra compresa tra i 1200 e i 1500 miliardi di dollari. Entrambe le fasi sono soggette al giudizio del Congresso, e alla possibilità che Obama, in caso di voto contrario, possa esercitare il potere di veto.

Una Commissione del Congresso – composta da sei democratici e sei repubblicani – dovrà nel frattempo identificare una serie di risparmi per 1500 miliardi. Nel caso non venisse trovato un accordo, scatteranno tagli automatici al bilancio del Pentagono e al Medicare (si tratta di una norma “capestro”, che dovrebbe costringere le parti a un accordo, visto l’interesse dei repubblicani a mantenere il budget della Difesa, e dei democratici a garantire la spesa sanitaria).

L’annuncio dell’intesa conclude giorni di intensi negoziati, veti contrapposti, appelli e allarmi da parte della comunità economica su un possibile fallimento “del sistema America”. A questo punto tutta l’attenzione è puntata sul Congresso, dove bisogna trovare i voti necessari a far passare il testo sottoscritto da Casa Bianca e leader democratici e repubblicani. Non è un’impresa facile. In entrambi i partiti l’insoddisfazione è palese. I repubblicani più conservatori, quelli vicini al Tea Party, restano ideologicamente contrari all’innalzamento del tetto del debito, e sono insoddisfatti per l’assenza, nell’accordo, di una clausola specifica che preveda un emendamento alla Costituzione sul pareggio di bilancio. Boehner ha cercato di presentare l’intesa come una “vittoria per i repubblicani, che sono riusciti a cambiare i termini del dibattito e a introdurre tagli consistenti alla spesa”. Ma l’insoddisfazione, tra le fila dei conservatori, resta palpabile.

Stesso discorso per i democratici più progressisti, soprattutto quelli della Camera, insoddisfatti per una manovra fortemente restrittiva, che porta la “spesa discrezionale” al livello più basso dai tempi di Dwight Eisenhower, e che non prevede il promesso aumento delle tasse per le fasce più abbienti. L’insoddisfazione dei liberal è stato espressa con forza da Nancy Pelosi, capogruppo democratico alla Camera, che non ha esplicitamente appoggiato la manovra. “Esaminerò la proposta legislativa col mio gruppo parlamentare, per vedere quale livello di sostegno possiamo raggiungere”, ha detto la Pelosi, alimentando l’incertezza. Il furore della sinistra del partito è in queste ore alimentato dal rifiuto della Casa Bianca di accompagnare i tagli a un programma ampio di stimoli economici ed investimenti nell’occupazione. Una scelta che potrebbe scontentare fasce preziose di elettorato democratico – donne, neri, giovani, ispanici – in vista delle presidenziali 2012.

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