Cannes non gradisce von Trier per le sue affermazioni “naziste”. Eppure plaude Malick che, invece, ha realizzato un film che a Hitler probabilmente sarebbe piaciuto. Sì, è una provocazione. Inverificabile, ovviamente. Ma c’è qualcosa, in questa faccenda, che fa riflettere sul cortocircuito dell’informazione e sul senso stesso della comunicazione. Il regista danese dice, in conferenza stampa, di comprendere Hitler. Pensandolo solo nel bunker quasi si emoziona. In fondo gli sta simpatico. E dice anche qualcosa di più, che Israele è una spina nel fianco (“a pain in the ass”, una rottura di scatole) e altre fesserie.

Va bene: ha sbagliato. E che non fosse un campione di progressismo era cosa nota. Che fiducia può avere nell’umano uno che ha girato Dogville e soprattutto in Manderlay? In Dogville l’ospite inatteso – Nicole Kidman, mai così bella – viene “accolta” da una comunità degenerata (come ogni comunità) solo a patto di sottostare a un continuo ricatto, a un sadico gioco al ribasso che la rende schiava e priva di dignità. Manderlay sembra addirittura un omaggio alle Leggi di Platone. La società è rigida, fatta di caste e ognuno deve stare al suo posto. Altrimenti arriva il disordine. Poi, complice la depressione e dopo quel capolavoro che è Il grande capo (sberleffo sull’assurdo in cui siamo immersi, noi uomini della globalizzazione) il geniaccio realizza due film sgradevoli e intensi come Antichrist (la natura è la chiesa di Satana è la sua frase-chiave) e questo Melancholia.  Che è bello, denso, sgraziato. Fastidioso e dolente.


Ma non è nazista, von Trier. È tormentato. È gonfio, forse per gli psicofarmaci. Probabilmente è infelice. Ma cerca qualcosa, disperatamente. Poi, visto che siamo personcine per bene, certe cose non si dicono, né – soprattutto – si dicono in pubblico. Ma cosa volete che sia visto che in concorso, il nazismo vero si annida tra le pieghe di The tree of life, il film più osannato, il più ammirato? Un film stilisticamente volgare e ideologicamente agghiacciante. Un film che depreda indegnamente Kubrick, Lynch, Fellini per farne un medley di roba già vista (altro che mirabile e innovativo atto artistico), per tirar fuori un ruffiano videoclip a base di musica classica. Non piaceva, forse, ai cultori del Terzo Reich, il ritorno alla natura? Beh, Malick li soddisfa in pieno.

Se non che, come aggravante, c’è anche un altro tema che piacerebbe di più ai teocon americani. In The tree of life la Natura è violenta ma è la Grazia di Dio che così vuole e così desidera. Quindi non ci si può far molto. Tanto che nel film vengono giustificati in maniera violenta la morte, il male, la sopraffazione e l’ingiustizia. Tutto viene ricomposto nel mare dell’eternità. Dove ogni cosa viene lavata via. Anche i lager, magari. Le vittime sopportano. La donna (la parte femminea e dolce) tace e comprende e anzi, alla fine, è felice di aver donato a Dio il figlio morto. Perché ciò che è supremo, superiore – chiamatelo come vi pare – è ciò a cui sacrifichiamo tutto e l’importante è vivere in pace con questa coscienza.


Al di là degli esiti davvero deludenti del film di Malick, vien da chiedersi che senso abbia la società della comunicazione se non riesce a distinguere un atto linguistico impulsivo e sciocco come quello di von Trier da un atto registico ponderato, inutilmente dispendioso e malefico come quello di Malick. E condanna il primo mentre plaude il secondo, magari con una bella Palma (speriamo di no). La differenza sostanziale è che, magari, Von Trier sarebbe uscito a cena con il Fhürer e si sarebbe pure divertito. Ma a Hitler non sarebbero piaciuti nè Antichrist né Melancholia. Perchè in entrambi i film c’è, al fondo, la convinzione che la natura sia il male di cui siamo vittime. E nessuna redenzione, nessuna, verrà a salvarci. E non c’è niente da ridere.

Von Trier sta realizzando opere cupe, deprimenti. Ma è, come Nietzsche (uno che dal nazismo fu solo strumentalizzato) un esploratore devastato dalla ricerca della verità. Malick, invece, la verità l’ha sempre trovata facilmente. Ma mai come in questo film. Dove, in un apologetico finale, tutti sono felici di comprendere la bella necessità dell’ingiustizia. Lasciateci soffrire, di fronte all’ingiusto. Di fronte alla morte, di fronte al dolore. Malick neppure la sofferenza, ci lascia. Ci condanna a morire e vuole pure che ne siamo felici. Se volete un film davvero profondo sul dolore e sull’impossibilità umana di comprenderlo, su Giobbe e sull’accettazione, si consiglia di rivedere senza sosta un film misterioso e profondo: A serious man dei fratelli Coen.

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