Vivono, lavorano e muoiono per il pesce venduto in Europa: sono i nuovi schiavi del mare. Secondo quanto denuncia Environmental Justice Foundation (Ejf), una Ong ambientale britannica, buona parte del pesce venduto e consumato nel mercato europeo proviene dalla pesca di frodo nelle acque dell’Africa occidentale, del Sud Est asiatico e dell’Oceano Indiano. Centinaia di pescherecci sui quali vivono, lavorano e a volte muoiono uomini, spesso giovanissimi, provenienti da paesi come Cina, Vietnam, Indonesia, Senegal e Sierra Leone, costretti a lavorare ininterrottamente e in condizioni disumane. Nessun diritto, solo lavoro. Una forma di schiavitù galleggiante da 11 milioni di tonnellate di pescato l’anno alla base di un giro d’affari di oltre 7 miliardi di euro.

L’Ejf, dopo aver condotto un’indagine nelle acque dell’Africa occidentale, ha stilato un rapporto (“All at Sea – the abuse of human rights aboard illegal fishing vessels”) in cui parla senza mezzi termini di schiavitù: turni di 18 ore di lavoro al giorno, punizioni corporali, giacigli di cartone ammuffito ammassati gli uni sugli altri, sporcizia e pesce marcio dappertutto. Spesso lo stipendio consiste in scatole di pesce di scarto che non verrebbero vendute nel mercato europeo. Alcuni membri dell’equipaggio di un peschereccio battente bandiera sudcoreana avvicinati dai volontari Ejf in acque africane, hanno raccontato di torture e violenze come privazione di cibo, acqua e sonno per chi si ribella agli ordin. Estrema punizione, l’abbandono su una spiaggia deserta o, peggio ancora, la morte.

Scene già viste, basti pensare all’imbarcazione con a bordo 150 senegalesi in semi condizione di schiavitù fermata lo scorso maggio al largo della Sierra Leone. Gli elementi per parlare di “lavoro forzato”, secondo l’International Labour Organisation, ci sono tutti: punizioni fisiche e psicologiche, violenza, sequestro forzato di documenti ed assenza di salario. Equipaggi spesso prigionieri in mezzo al mare dove restano per mesi, raggiunti solo una volta ogni quindici giorni da imbarcazioni frigorifere che scaricano il pescato. Se qualcuno si ammala o ha bisogno di cure mediche viene abbandonato a se stesso.

Una tragedia che non risparmia l’habitat sottomarino, visto che questi pescherecci raschiano i fondali bassi con reti che distruggono tutto in cerca di aragoste e gamberi. Quello che non serve viene poi gettato in mare.  “Il massimo profitto con il minimo costo. Poco importa se a prezzo dei diritti umani fondamentali di centinaia di poveracci”, commenta Duncan Copeland, veterano Ejf.

Il colmo è che molti di questi pescherecci pirata, la maggior parte carcassoni di quasi 50 anni, arrugginiti e fatiscenti, hanno codici di navigazione dell’Ue, quindi in possesso di regolare licenza per esportare in Europa. Ejf denuncia che molte di queste imbarcazioni navigano con “bandiere di convenienza” (ad esempio di paesi come Panama, Liberia, Honduras,Vanuatu e Belize), utilizzate per aggirare i controlli marittimi e continuare indisturbati la pesca di frodo. Questi pescherecci possono cambiare bandiera più volte nello stesso anno e sono autorizzati a navigare in acque nazionali in cambio di poche centinaia di euro. La battaglia per una legislazione più stretta sulla navigazione in acque internazionali e per la messa al bando delle bandiere di convenienza va avnti da anni, ma resta tuttora al palo.

Jon Whitlow, Segretario generale del dipartimento Pesca dell’ International Transport Workers Federation(Itf) ricorda lo stretto legame tra pesca di frodo e bandiere di convenienza, grazie alle quali i reali responsabili rimangono nell’ombra e aggirano ogni legislazione. “Per fare qualcosa è fondamentale che gli Stati ratifichino il più presto possibile la Convezione Itf 187 del 2007 sul lavoro nella pesca”.

“Un impatto sociale, umano ed ambientale incalcolabile”, secondo Steve Trent, Direttore esecutivo Ejf. “La pesca di frodo, alimentata da una crescita insostenibile della domanda di pesce nel mondo, sta minacciando seriamente l’intero settore a livello globale”.

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