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In piazza il 21 giugno contro il rischio dell’Europa armata

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Minimo il due per cento, poi il tre, anzi il tre e mezzo, vabbè ok accettiamo il cinque, purché non se ne parli troppo. Sul denaro da destinare al riarmo, il governo dà i numeri. Sollecitato, va detto, dall’urgenza del Segretario della Nato, Mark Rutte, da settimane in tournée nelle Capitali europee in vista dell’imminente vertice dell’Alleanza Atlantica in cui toccherà decidere se ammassare arsenali o, per dirla con lo stesso Rutte, “parlare russo”: l’invasione di Putin sarebbe imminente. Messa così c’è poco da scegliere, e la decisione è infatti già stata presa, come dimostra la selva di numeri in cui deve districarsi l’esecutivo, dando fondo alla fantasia per cercare di spiegare com’è che i soldi non ci sono per sanità, istruzione e salari, e si materializzeranno invece per le armi. La posizione sarebbe complessa per qualsiasi governo ed è particolarmente imbarazzante per quello che si dice dalla parte del popolo ma al popolo ha ridotto le cure sanitarie – sei milioni le persone che l’anno scorso vi hanno rinunciato per mancanza di risorse e di disponibilità del Servizio sanitario nazionale – e alzato per cialtronaggine le tasse, persino quando l’intenzione era abbassarle. Quel 5% del Pil con cui ci inchineremo alle bizze di Trump – maggior azionista della Nato, di cui vuole alleggerirsi, ma con la certezza di piazzare solide commesse per le aziende statunitensi – inchioda Giorgia Meloni a trovare qualcosa come 100 miliardi di euro in sette-dieci anni da consegnare a fucili e cannoni, secondo i calcoli rigorosi dell’Osservatorio Milex. Per arrivare a quel tipo di spesa, suddivisa in difesa (munizioni, bombe, aerei e tutto l’apparato “tradizionale”) e sicurezza (cioè protezione cyber e delle infrastrutture strategiche per la difesa, in cui Matteo Salvini vorrebbe far rientrare persino il famigerato Ponte sullo Stretto) saranno necessari aumenti annui nell’ordine di 9-10 miliardi; e una volta raggiunto il livello toccherà destinarne al comparto intorno ai 110 con ogni legge di Bilancio, la bellezza di 70 miliardi in più della spesa attuale. Per capire di cosa parliamo in concreto, basta dire che l’Italia spende per l’istruzione 79 miliardi all’anno, cioè 30 in meno di quanti destinerà alle armi, e circa 140 per la Sanità, con uno stanziamento insufficiente per cui nel 2024 non si sono trovati 4 miliardi aggiuntivi. “Non vogliamo si possano toccare spese per sociale, sanità, istruzione, pensioni”, ha detto in Parlamento il ministro Crosetto, interrogato sulle prospettive di riarmo, fiutando probabilmente l’umore di un’opinione pubblica che chiede pace e giustizia sociale ed è spaventata dal clima di guerra: lodevole proposito, quello del ministro, ma la matematica rivela più delle intenzioni obbligate. Tra le consapevolezze che consegna ce n’è d’altronde anche un’altra: l’ingente sforzo per il riarmo non andrà a sommarsi a quello degli altri Paesi europei, in un percorso di condivisione di strumenti, uomini e soluzioni, necessario primo passo verso la difesa comune. Basterebbe per crederci anche partire dalla razionalizzazione di sistemi e mezzi, sparita invece persino dai discorsi istituzionali sull’importanza della coesione europea. Anche a volerlo, insomma, non si può fingere di non vedere che il riarmo altro non è che è una frammentazione pericolosa dell’Europa, un passo indietro verso Stati nazionali imbottiti di cannoni e fucili e attraversati da pulsioni nazionalistiche fortissime, ingredienti di un mix che già conosciamo e sappiamo potenzialmente micidiale. Per dire no a tutto questo si scende in piazza sabato 21 giugno, in una manifestazione che dà a tutti la possibilità di ribadire: non in mio nome. Ricordando l’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Perché le armi, non sfugge a nessuno, si comprano per usarle, anche quando si nasconde la realtà dietro la “deterrenza necessaria”.

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