Quando per Meloni il Jobs act era “carta buona per le pizze”
Chissà se si ricorda, Giorgia Meloni, di quando definiva il Jobs Act “carta buona per incartare le pizze”, lamentandosi con l’allora governo Renzi perché non accettava correttivi allo sciagurato piano per il lavoro che la propaganda del Giglio magico raccontava, capace di eliminare storture e precarietà. Dieci anni dopo, il precariato è diventato elemento strutturale del Paese – il 30% della forza lavoro ha contratti a termine o part time, quest’ultimo spesso involontario – e la concorrenza si gioca sul mercato del ribasso, costringendo chi lavora in condizioni di perenne ricattabilità e chi fa onestamente imprenditoria a sentirsi fesso, perché immolato a regole, etica e considerazioni di competitività fuori moda, benché secondo ogni analisi empirica determinanti anche per il successo aziendale.
Se la presidente del Consiglio trovasse il tempo per incontrarlo, il segretario della Cgil potrebbe forse ricordarglielo, sottraendo così i referendum dell’8 e 9 giugno su cinque questioni fondamentali – quattro quesiti per rimediare ai macroscopici errori della riforma renziana, l’ultimo per cambiare le norme sulla cittadinanza per stranieri regolari, riportando linfa vitale nell’Italia incanutita dell’inverno demografico che tanto preoccupa il governo – alla battaglia politica di piccolissimo cabotaggio. Perché va bene annunciare con berlusconiana grandeur un milione di posti di lavoro creati, e un impegno per promuovere la sicurezza snocciolando cifre roboanti, chiedendo “concertazione” e ignorando al contempo ostinatamente una piattaforma unitaria dei sindacati depositata da tre anni, ma furbizia politica suggerirebbe invece di non trascurare le categorie di elettori che costituiscono l’ossatura produttiva, e di consenso, del Paese. E se Confindustria ha recentemente denunciato la mancanza di politiche serie per le imprese, è difficile non solidarizzare con quei capi azienda che, a dispetto di bollette energetiche impossibili e un costo del lavoro ben più alto di quello delle rendite, ancora provano a miscelare competenze, creatività, saper fare e correttezza – tutti valori a cui si rifà pienamente, almeno a parole, la destra di governo – per contrastare un crollo della produzione che dura da 25 mesi, ossia più di due anni, pressappoco la durata dell’attuale esecutivo, a dispetto delle migliori intenzioni dell’esecutivo stesso. “Non disturbiamo chi fa”, come ebbe a dire la presidente del Consiglio fin dal discorso di insediamento, può essere una indicazione soltanto aggiungendo “bene” alla fine della frase: chi non licenzia senza giusta causa; chi ha orizzonti strategici e punta sui lavoratori per realizzarli, senza tenerli sulla graticola e senza cambiarli come cleenex, avvalorandone cioè la formazione; chi non accetta infine l’idea che ogni giorno tre persone escano di casa per andare a guadagnarsi la vita e non tornino indietro, in un’emergenza drammatica denunciata sia dal presidente Mattarella sia dalla premier Meloni. Chi, insomma, si comporta con correttezza ma anche con lungimiranza, pensando al proprio successo nonché a quello altrui, contribuendo fattivamente proprio alla rinascita del Paese di cui sono farciti i discorsi ufficiali.
Dovrebbe essere orgogliosa di sé, Giorgia Meloni, nel constatare quanto avesse ragione su quella “carta da pizza” e sugli effetti che avrebbe prodotto. E siccome alla “esistenza di lavoratori di serie A e di serie B” che al tempo l’affliggeva oggi deve aggiungere la preoccupazione per un tessuto imprenditoriale che vuole sano e giustamente competitivo, siamo certi che diventerà prima testimonial in favore di referendum cruciali per l’Italia che vuole costruire. E sui quali invece inspiegabilmente il suo partito ha scelto l’astensione.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità