“Oltre la moda, l’abito come identità”: l’artista che racconta le culture attraverso i vestiti
”Un vestito non è solo un capo, è un legame con le proprie origini. Un segno di identità che resiste anche quando tutto il resto cambia”. Nel pieno della frenesia della Settimana della Moda, incontriamo Arturo Delle Donne, fotografo e artista che osserva la moda da tutt’altro punto di vista. Da tempo, infatti, esplora il significato profondo dell’abbigliamento tradizionale attraverso un progetto che coinvolge le comunità etniche arrivate in Italia: l’idea è fotografare persone che indossano per la prima volta in Italia i loro abiti tradizionali, “tirati fuori da vecchi bauli”. Abiti che “diventano personalità, ricchezza culturale e gioia”. “Ogni vestito porta con sé storie, generazioni, significati. Sono oggetti vivi, tramandati come reliquie, cuciti con tecniche che raccontano un sapere antico”.
Un approccio lontano dal lusso “commerciale”: “Le passerelle raccontano un ideale estetico legato alla novità e al mercato. Il mio lavoro cerca la permanenza, la testimonianza culturale”. Per Delle Donne, la moda è “immediata, visiva, decodificabile. Un tessuto, un motivo, raccontano un territorio, una tradizione. La moda è un ponte tra culture”. Racconta di incontri toccanti, di persone che hanno indossato per la prima volta in Italia abiti tradizionali tirati fuori da vecchi bauli: “Li ho voluti fotografare così, come testimonianza di una memoria”. Abiti che, spiega, “diventano personalità, ricchezza culturale e, spesso, gioia nell’indossarli”.
Come è nato il suo interesse per la moda e l’arte?
La mia formazione nasce dalla fotografia e dall’arte visiva, ma è sempre stata legata all’osservazione dell’essere umano. La moda, intesa come codice culturale, è stata una scoperta naturale lungo il mio percorso: ho iniziato a vedere gli abiti non solo come oggetti estetici, ma come strumenti narrativi che raccontano chi siamo e da dove veniamo.
Dove nasce la sua visione della moda come strumento di espressione culturale e sociale?
Nasce dall’idea che la moda non sia un semplice accessorio del quotidiano, ma un linguaggio. Ogni tessuto, ogni cucitura, ogni scelta estetica porta con sé un significato storico e culturale. Nel mio lavoro esploro la moda come archivio vivente della memoria collettiva, un mezzo per decifrare le identità in evoluzione.
Il suo progetto di esplorare gli armadi delle comunità etniche in Italia è un esempio di come la moda possa essere una forma di ricerca etnografica. Può raccontarci come è nata questa idea e quali riflessioni ne ha tratto?
L’idea di questo progetto ha iniziato a prendere forma dopo la mostra Tribes – The Last Breath on Earth, la prima parte di una trilogia che ho avuto l’opportunità di esporre anche al Museo Cinese ed Etnografico di Parma. Quell’esperienza è stata un punto di svolta: mi ha portato a riflettere su come la diversità culturale non sia qualcosa di distante, ma un elemento che permea il nostro quotidiano in modi spesso sottili, ma profondi. Osservando la realtà che mi circonda, mi sono accorto di come la contaminazione culturale si manifesti nei dettagli più intimi della vita di tutti i giorni. Uno di questi dettagli, per me particolarmente significativo, è il modo in cui le persone custodiscono nei loro armadi abiti che raccontano storie di viaggi, migrazioni e radici. Un vestito non è solo un capo di abbigliamento: è un legame con la propria terra d’origine, un segno di identità che resiste anche quando tutto il resto cambia. Così è iniziato un dialogo appassionante sulle culture e sul ruolo simbolico degli abiti. Come possono i vestiti raccontare la storia di un popolo? Quali significati nascosti portano con sé? Da una serie di incontri e confronti è nato il progetto vero e proprio. Alla base di The Homo Sapiens c’è una domanda semplice ma potente: cosa metteresti in valigia se sapessi che il tuo viaggio sarà di sola andata? Questa domanda ha generato risposte sorprendenti, ma una costante è emersa con chiarezza: quasi tutti citano due cose, il cibo e un abito. Due elementi che rappresentano, in modi diversi, il legame con la propria identità, con le proprie origini. Ogni abito scelto e indossato dalle persone fotografate non è solo un pezzo di stoffa, ma un segno di orgoglio, un frammento di storia personale e collettiva. Il legame tra l’individuo e il suo abito è profondo e inscindibile: senza l’uno, l’altro non esisterebbe nella stessa forma. L’obiettivo ultimo del progetto è ambizioso: riuscire a raccontare il mondo intero senza spostarsi dal territorio italiano.
In che modo gli abiti tradizionali incontrati nel suo percorso sono diventati portatori di memoria e identità, e come hanno influenzato la sua visione del rapporto tra moda e cultura?
Ogni abito tradizionale porta con sé una stratificazione di storie, generazioni e significati. Sono oggetti vivi, tramandati come reliquie, cuciti con tecniche che raccontano un sapere antico. Ho capito che la moda non è solo espressione personale, ma un codice che si evolve con la società, adattandosi e trasformandosi senza perdere la propria essenza. Ci sono stati incontri con persone che utilizzavano il vestito per la prima volta da quando sono arrivati in Italia. Tirati fuori da bauli, ancore con le pieghe, li ho voluti fotografare così, come testimonianza di una memoria, un ricordo importante.
Ci sono state persone che hanno raccontato le loro vite durante gli shooting fotografici, l’importanza di mostrare la propria cultura con un tenero orgoglio.
Come immagina il futuro della moda e dell’arte, e quale ruolo pensa che gli artisti e i designer possano svolgere nel costruire un mondo più inclusivo e sostenibile?
Il futuro della moda dipenderà dalla capacità di recuperare un rapporto più autentico con il passato e con la terra. Penso che gli artisti e i designer abbiano la responsabilità di proporre un cambiamento di prospettiva: meno accumulazione, più consapevolezza. L’inclusività e la sostenibilità non devono essere slogan, ma pratiche concrete. Ogni artista dovrebbe avere una visione del mondo e portarla avanti. Non può essere solo estetica fine a se stessa. Io penso che la diversità sia ricchezza, anche come risorsa ispirativa.
Quali storie o ricordi legati agli abiti tradizionali l’hanno colpita maggiormente, e come hanno influenzato la sua comprensione della moda?
Ci sono stati momenti che mi hanno toccato profondamente. In alcuni casi commosso. Alcuni dei protagonisti delle fotografia adesso diventeranno protagonisti dell’omonimo documentario, in cui esploreremo alcune storie di donne, famiglie che abitano in Italia e le cui storie sono strettamente legate agli abiti personali. Racconteremo la storia di Pannà e della sua famiglia legata alla festa indiana del Navratri e al vestito Chaniya Chori, oppure Nadia che dalla Costa d’Avorio ha aperto un atelier a Parma ed ancora le storia incredibile di Elisabetta delle isole San Blas che attraverso le Molas ci racconta la storia del popolo Kuna
Come si differenzia l’approccio alla moda europeo/occidentale da quello delle comunità da lei studiate?
L’Occidente ha trasformato la moda in un ciclo frenetico, in un’industria dell’accelerazione. Nelle comunità che ho studiato, invece, la moda è legata al ritmo della vita, ai passaggi rituali, alla funzione sociale dell’abito. C’è un senso di continuità, di rispetto per i materiali, una lentezza che è espressione di valore.
Lei ha detto: “La moda non è solo abbigliamento; è un linguaggio visivo che racconta le storie delle persone, delle comunità e delle loro tradizioni, e nella moda la bellezza della diversità risiede nella capacità di raccontare storie uniche attraverso tessuti, colori e disegni”. Pensa che anche la moda “commerciale”, dei brand del lusso lo sia?
La moda è molto più di un semplice abbigliamento: è un linguaggio che racconta storie, identità e tradizioni. Ogni capo tradizionale è il risultato di creatività, ingegno e storia, e il suo valore va oltre l’estetica. Esplorare e comprendere culture diverse non solo arricchisce il nostro bagaglio culturale, ma ci apre a nuove prospettive. La maggior parte delle Maison stanno riscoprendo e reinterpretando tecniche artigianali antiche, collaborando con comunità locali e dando nuova visibilità a tradizioni secolari. Questo approccio non solo preserva il saper fare, ma sostiene anche le economie locali e promuove una produzione più sostenibile. La diversità nella moda è un patrimonio da tutelare, e attraverso una maggiore consapevolezza e impegno verso la sostenibilità culturale ed economica, possiamo evitare che venga sacrificata alla globalizzazione. Celebrando le radici e il valore delle differenze, la moda continuerà a essere un potente mezzo di espressione, capace di riflettere la bellezza e la ricchezza delle culture umane.
In che modo la moda può diventare un linguaggio universale per promuovere il dialogo interculturale e la comprensione reciproca tra le diverse comunità?
Perché è immediata, visiva, decodificabile. Un tessuto, un motivo decorativo, una tecnica di lavorazione raccontano un territorio, una tradizione, un’appartenenza. Quando due culture si incontrano, si scambiano inevitabilmente anche elementi di stile. La moda è un ponte, uno spazio comune in cui la diversità può essere valorizzata invece che appiattita.
La moda con cui lavora lei è molto diversa sia visivamente che concettualmente da quella che vediamo sfilare in passerella in questi giorni di Fashion Week…
Le passerelle raccontano spesso un ideale estetico legato alla novità e al mercato. Il mio lavoro, invece, parte dall’idea opposta: non la tendenza, ma la permanenza. Non la moda come consumo, ma come testimonianza culturale. Le mie immagini esplorano la moda come fenomeno antropologico, come rito e non solo come oggetto di desiderio. Alla fine non è più moda, nel senso più largo del termine, ma un abito che diventa personalità, ricchezza culturale e spesso come mi è capitato di vedere gioia nell’indossarlo.
A proposito di Fashion Week, lei è protagonista con un’edicola. Ci racconta come nasce il progetto?
Ciò che mi affascina profondamente non è soltanto il concetto di sostenibilità in senso stretto, ma soprattutto la diversità in tutte le sue forme: quella culturale, che arricchisce le società attraverso il confronto e lo scambio, e quella biologica, che rappresenta un patrimonio insostituibile per il nostro pianeta. Questo approccio rispecchia profondamente la mia visione artistica, nella quale la natura e le sue infinite sfumature giocano un ruolo fondamentale. Per questo ho trasformato con Dolomia l’edicola di Corso Venezia in un “Rifugio di Bellezza Naturale”, un’installazione immersiva pensata per celebrare il profondo legame tra biodiversità e benessere. L’idea alla base di questa opera è stata quella di reinterpretare un elemento urbano quotidiano, come un’edicola, per trasformarlo in un’oasi che stimoli una riflessione sensoriale e culturale. In questo spazio, il mondo della cosmetica sostenibile si è intrecciato con la straordinaria ricchezza della natura, dando vita a un dialogo inedito tra arte e scienza.
Il cuore pulsante dell’installazione sono state le capsule Petri, piccoli contenitori solitamente usati nei laboratori scientifici per studiare microrganismi e cellule. In questo contesto, le capsule si sono trasformate in simboli potenti di connessione tra scienza, natura e bellezza. Ognuna di esse racchiude estratti e principi attivi naturali, utilizzati nei cosmetici Dolomia, ispirati alla purezza e alla forza del territorio dolomitico. All’interno di ogni capsula prende forma un microcosmo unico, un’essenza vitale composta da estratti botanici, minerali e microelementi, che racconta la bellezza invisibile della biodiversità e il suo inestimabile valore. Il progetto ha dato vita a un dialogo profondo tra scienza e arte, dimostrando come la ricerca scientifica e la sostenibilità possano fondersi in modo armonioso per raccontare la natura da una prospettiva nuova e affascinante. Le capsule Petri, dunque, non sono solo strumenti scientifici, ma diventano potenti metafore della necessità di preservare gli equilibri naturali. Ogni principio attivo racchiuso in esse racconta una storia millenaria di armonia tra gli elementi e ci ricorda che la bellezza della natura non è solo qualcosa da ammirare, ma un patrimonio da proteggere con consapevolezza e rispetto. La fragilità di questi microcosmi rispecchia la nostra responsabilità nel custodire gli ecosistemi, veri e propri scrigni di risorse preziose per il benessere dell’umanità.
