Marta: “Grazie al centro mi sono rituffata in un’altra vita coi miei figli”
“Sai qual è la cosa più strana, quando ti succede quello che è successo a me? Che prima daresti tutto quello che hai per scomparire, poi quando va meglio ti accorgi che se vuoi tornare a vivere devi smettere di essere invisibile. Ma non è facile, per niente”. La storia di Marta inizia come tutte le storie di abusi: botte e promesse, fiori e giuramenti, mille tentativi di rimettere insieme cocci che solo dopo una tragedia sfiorata si capisce che sono macerie. Suo marito – un lui a cui Marta non vuol fare l’onore di un nome – la picchiava anche durante le gravidanze, poi diceva che non l’avrebbe fatto più, mai più. Così si ricominciava e proprio quando lei sperava che il peggio fosse passato, un pugno le ricordava che non sarebbe passato mai. “Ci si può abituare anche alla violenza. Le botte ti umiliano così tanto che ti convinci, non dico di meritartele, ma quasi. Se la violenza non avesse questo effetto te ne andresti al primo schiaffo. E invece resti”. Nella famiglia di Marta s’instaura un equilibrio malato ma solido. Tra lacrime e scuse, il patto tacito è che i bambini restino fuori dalle violenze. Una notte però tutto salta per aria: la figlia più grande si sveglia, vede lui picchiare la mamma e si mette in mezzo. Finiscono entrambe in pronto soccorso.
“L’ultima volta che l’ho visto è stato attraverso il vetro dell’ospedale. Aveva in mano un mazzo di fiori, pensava che anche quella volta tutto sarebbe tornato a posto”. Però non esiste una colla per questi cocci: la bambina ha avuto una prognosi di un mese, sono passati tre anni e ancora, nonostante la psicoterapia, fa la pipì a letto. “Sto cercando di perdonarmi, ma non è facile”, spiega Marta che ha trovato rifugio in un centro antiviolenza. “Ho avuto molte esperienze professionali sempre nel ramo delle vendite, finché mio marito mi ha convinta ad aprire insieme un’attività commerciale, intestata a me. Quando me ne sono andata di casa ho scoperto che lui mi aveva intestato società fallite, ero piena di debiti, addirittura ero stata protestata dalla banca”. Ogni giorno Marta deve dimostrare a qualcuno di essere una buona madre e, allo stesso tempo, trovare una via d’uscita: lasciare il centro in cui è ospitata, trovare qualcuno disposto ad affittarle una casa nonostante non abbia ancora una busta paga da mostrare in garanzia. Deve trovare un lavoro stabile, ma che al contempo le consenta di accompagnare i figli a scuola, di andare a riprenderli, di portare la bimba dal neuropsichiatra, il piccolo in piscina… Questo è ciò che il sistema pretende per concederle l’affido esclusivo dei suoi figli: un’acrobazia che assomiglia a un miracolo. È qui che Marta ha incontrato Kore. Valentina Murino, cofondatrice del progetto Kore, spiega: “Non so dove queste donne trovino la forza per affrontare tutte le difficoltà che incontrano. Lo penso, con grande ammirazione, ogni volta che aiuto qualcuna di loro a preparare le valigie di nascosto, a rifugiarsi in un albergo in attesa di una casa protetta, ogni volta che tiro fuori un fazzoletto per lacrime che sembrano non finire mai. Kore arriva nella vita delle vittime di violenza nel momento cruciale in cui si rituffano nel mondo: quando mi chiedono che lavoro faccio, rispondo che aiuto le donne abusate a ricordarsi come si nuota”.