Il borgo sardo di Borutta, nel cuore del Mejlogu

Prime donne – Ninetta Bartoli, la sindaca che rivoluzionò il paese (e pure il linguaggio)

È l’aprile della primavera del 1946, da un anno è stato introdotto anche in Italia il suffragio universale

Di Angelo Molica Franco
9 Settembre 2020

“Bartoli”; “Bartoli”; “Bartoli”; “Bartoli”: deve procurare un certo effetto sentire pronunciare il proprio cognome 332 volte, e prendere atto del fatto che ben 332 elettori su 371 (per una percentuale che solletica il 90 per cento) del piccolo borgo sardo di Borutta, nel cuore del Mejlogu (Sassari), hanno scelto di eleggere proprio te a rappresentante dei cittadini. Chissà cosa attraversa la mente di Donna Ninetta Bartoli – il corpetto bianco con le maniche a sbuffo, la lunga gonna dalla vita alta con le plisse larghe ricamata a fiori e il velo a incorniciare il volto altero – mentre posa per la foto ufficiale nel giorno della sua investitura. Chissà se ha un sussulto, magari celandolo per non vedersi scalfita nel suo nuovo ruolo, di fronte allo stupore di chi l’ha appena proclamata “sindaca”, declinando al femminile una parola prima di allora sentita solo al maschile.

La linguistica insegna che inventare una nuova parola è un’esigenza che nasce di fronte a un avvenimento inedito, che le conoscenze pregresse non sono in grado di definire. Per ciò, si avocano a sé significati già esperiti e li si plasma per creare nuovi modi di esprimersi. È l’aprile della primavera del 1946, mentre l’intera campagna attorno a Borutta è ricoperta di una distesa di mimose biondissime, nerissimi sono invece i capelli che scappano ribelli dalla scriminatura di Ninetta, colei che passerà alla Storia come la prima sindaca della repubblica italiana. Quel giorno, dopo la foto sulle scale del municipio, mentre si appresta a varcare la soglia dell’ingresso, nell’incedere fiero di Ninetta sembra realizzarsi la scandalosa profezia tutta femminile delle eroine dei romanzi di Grazia Deledda: teste ricoperte da chiome nerissime e raccolte mentre la domenica vanno alla messa, sì, ma capaci di pensare, portatrici di una forza ancestrale che ha a che fare con il sangue e la terra. Tale è Ninetta, dissolta in una magia naturale e aspra, una donna che a cinquant’anni non si piega di fronte a nulla. Nata a Borutta nel 1896, studia a Sassari nell’Istituto delle figlie di Maria e qui entra in contatto con il carismatico missionario Giovanni Battista Manzella, la cui presenza sarà fondamentale per la formazione del suo impegno civile e della sua coscienza civica. Ninetta è una nobile, una privilegiata dunque, che si erge al di sopra di gran parte delle disuguaglianze tra maschio e femmina e del ruolo che la società a lei contemporanea impone alle donne, eppure non sopporta che il suo sesso venga relegato alla funzione di soprammobile domestico. Proprio come lei non vuole ricamare o fare figli e desidera dedicarsi e legarsi agli altri di un legame etico piuttosto che un contratto religioso tout court, perché non potrebbe essere quella stessa anche l’incondizionata scelta di ogni donna in qualità di essere umano libero?

Lacerata da questo scarto sociale e mossa da quella rara virtù che è la pietas (oggi riscontrabile solo nella letteratura), si impegna in opere di filantropia, ma soprattutto vuole essere parte attiva del futuro delle donne, sganciandole da quell’aura che è più un cappio al collo di “angelo del focolare”. Istruita a dovere e con contezza di mondo, torna a Borutta dove stringe amicizia con Laura Carta (futura moglie di Antonio Segni, già deputato popolare nell’epoca prefascista, giurista e rettore universitario), ed è così che inizia la sua pratica politica tra organizzazioni cattoliche, caritatevoli, e avvicinandosi alla Democrazia Cristiana locale e ai suoi vertici. È il 1° febbraio 1945, le donne in Italia ottengono il diritto di voto e, l’anno più tardi, grazie al decreto De Gasperi-Togliatti, godono dell’elettorato passivo, possono cioè essere elette: il momento è arrivato!

La signorina Bartoli è già da tempo il punto di riferimento della sua comunità: tutti sentono ogni giorno scalpicciare la sua carrozza tra Borutta e Sassari perché vuole che nulla di quel territorio le sia sconosciuto e per rispondere alle richieste di qualsivoglia cittadino. Per questo, su tre liste presenti (la seconda sardista e la terza civica) il consenso di Donna Ninetta è plebiscitario. E mai fiducia fu meglio riposta nelle promesse fatte durante la campagna elettorale di ammodernare il villaggio. Nobile di idee progressiste, sotto la sua guida durata per ben dodici anni, da borgo rurale qual era, Borutta vede dotarsi di un acquedotto, un sistema fognario, energia elettrica; e ancora case popolari, cimitero, una cooperativa per la raccolta del latte e la produzione dei formaggi per dare occupazione alla popolazione (La latteria sociale del Mejlogu), scuole elementari ma soprattutto l’asilo per permettere alle donne di andare a lavorare. Ancorché nessuna via in paese ricordi questa capostipite, la figura di Ninetta si specchia esatta nella facciata romanica bianca di arenaria e nera di basalto del monastero e della Basilica di San Pietro di Sorres, che lei stessa – a sue spese – fece ristrutturare nel 1947 perché potessero ospitare dei monaci provenienti dall’Abazia di san Giovanni Evangelista a Parma che sempre lei si occupò di trovare. E dal 1970, il monastero ospita anche il più importante laboratorio di restauro del libro presente in Italia.

Tutto grazie alla prima sindaca d’Italia. E non storcano il muso, per riannodare quella breve parentesi sulla linguistica avviata poc’anzi, i detrattori del femminile dei ruoli, coloro che – anche nei media, ahimè – hanno difficoltà nel dire o scrivere “ministra”, “sindaca”, “prima ministra”, “presidentessa”, dunque nell’allargare il tema del potere alle donne a partire dalle parole con cui si descrive il mondo (mentre non c’è nessun problema con “segretaria” o “infermiera”…). Perché non è soltanto l’invenzione di una parola grazie al suo primo utilizzo, il lascito di Ninetta Bartali: a lei si devono i pensieri, i sogni, le aspirazioni di tutte quelle bambine e giovani donne che da lei in poi – seguendo il suo esempio – hanno potuto scrivere (in un tema in classe) o più semplicemente dire: “Da grande voglio fare la sindaca”.

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