Balletto bancario - Da Etruria a oggi

Carige, azionisti già azzerati e obbligazionisti salvi: i paragoni col passato

In questo caso l’unico bond junior sul mercato è quello da 320 milioni in mano al Fondo interbancario, cioè alle altre banche italiane. E i circa 55mila piccoli soci avevano già perso quasi tutto con il crollo del titolo

9 Gennaio 2019

Una differenza c’è: nessun piccolo obbligazionista di Carige pagherà per le colpe dei manager, della Vigilanza e delle autorità di regolazione. Il motivo è semplice: l’unico bond junior sul mercato è quello da 320 milioni in mano al Fondo interbancario, cioè alle altre banche italiane, emesso di recente; gli altri sono stati convertiti in senior – sicuri, fatta l’ovvia eccezione del fallimento della banca – alla fine del 2017.

Questo differenzia, almeno negli effetti, il decreto appena approvato dal suo vero precedente, quello per Monte dei Paschi (estate 2017), caso in cui i subordinati hanno invece pagato assai. Quanto agli azionisti, quelli di società quotate come Mps e Carige non possono essere salvati. I circa 55mila piccoli soci dell’istituto ligure, che se la passa male da qualche anno, erano peraltro già stati “azzerati” dal mercato: il titolo, che valeva circa 5 euro nel 2014, era a 0,0015 prima del commissariamento.

E ora veniamo ai paragoni col passato che vanno di moda in queste ore. Intanto va ricordato che tutta la questione banche soggiace alla direttiva europea Brrd (Bank Recovery and Resolution Directive) che gli Stati Ue s’erano impegnati – citiamo Bankitalia – ad “applicare a decorrere dal 1° gennaio 2015, ad eccezione delle disposizioni relative ad alcune procedure (il cosiddetto bail-in) che devono essere applicate non più tardi del 1° gennaio 2016”. La normativa europea – che arriva dopo i grandi salvataggi bancari nell’Unione – è tutta orientata a gestire le eventuali crisi senza l’intervento dello Stato, scelta ideologica che è costata moltissimo al nostro sistema del credito. Il bail in, in particolare, esclude ogni intervento pubblico in caso di crac se prima non abbiano pagato azionisti, obbligazionisti (prima junior e poi senior) e persino correntisti oltre i 100mila euro. L’obiettivo è evitare i famigerati “aiuti di Stato” che perturbano l’altrettanto famigerata “concorrenza di mercato”.

Il kamasutra tra Italia e Ue sul sistema bancario inizia all’alba del 2014 quando – gentilmente “consigliata” da Ignazio Visco e soci – Popolare di Bari si carica la disastrata Tercas con l’aiuto del Fondo Interbancario: il ministero dell’Economia benedice e poi passa due anni a trattare con Bruxelles attorno al concetto se i soldi del Fitd (che sono delle banche) siano da considerarsi statali. L’Ue alla fine stabilirà che sì, lo sono, e allora Pier Carlo Padoan cambierà una parola (contributo “volontario” anziché “obbligatorio”) e li farà tornare privati per la gioia della Direzione Concorrenza di Bruxelles.

Nel 2014 e 2015, però, altri membri del governo erano invece affaccendati in imbarazzanti incontri per provare a salvare banche nei cui cda sedevano loro parenti: conflitto d’interessi (e coda di paglia) che mise il governo di Matteo Renzi in una posizione di sudditanza rispetto a Bankitalia, di cui seguirà in modo pedissequo gli ordini a partire da riforma delle banche popolari (inizio 2015) e di quelle di credito cooperativo (inizio 2016) passando per il capolavoro del novembre 2015, la risoluzione per decreto di Banca Marche, Popolare Etruria, Carichieti (poi vendute “ripulite” a 1 euro a Ubi Banca) e Carife (passata a Bper allo stesso prezzo).

Questo passaggio – che segna anche la mai digerita sconfitta della ministra Boschi in cerca aiuto tra regolatori e banchieri – è il vero punto di non ritorno: nel crac vengono tosati azionisti e risparmiatori subordinati (ne è seguito il balletto, non ancora concluso, sui rimborsi) applicando il bail-in in anticipo rispetto alla sua entrata in vigore obbligatoria, ma soprattutto fissando per decreto il “prezzo” dei crediti deteriorati sul nascente mercato italiano (Bankitalia, peraltro, prima stabilì che valevano il 17,6%, cioè che ogni 100 euro di prestito se ne potevano recuperare solo 17,6, e poi scoprì che era il 22%). Da allora – grazie agli “inviti” a liberarsene in fretta della Bce – le banche italiane svendono le loro “sofferenze” a prezzi di saldo aprendo buchi nei loro bilanci, invece i fondi specializzati che le comprano ci fanno bei soldi col recupero crediti.

Il “liberi tutti” di Etruria e delle altre “banchette”, comunque, lasciò nella burrasca le pencolanti Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Monte dei Paschi, la cui situazione fu lasciata incancrenire per un anno onde non turbare gli italiani prima del referendum costituzionale: finirono male sia la “soluzione di sistema” del Fondo Atlante in Veneto (con relativo bagno per banche e fondazioni) che quella “di mercato” per il “bell’affare” Mps (Jp Morgan, poi il fondo del Qatar, poi nessuno…).

Alla fine, siamo quasi a Natale 2016, il neo premier Paolo Gentiloni è costretto a stanziare 20 miliardi per le banche. Le due venete, via liquidazione coatta amministrativa, finiscono nella primavera 2017 a Intesa Sanpaolo per il solito euro insieme a oltre 5 miliardi pubblici cash e ancor di più in garanzie: obbligazionisti e azionisti perdono tutto. Per Mps, in estate, si decide per l’ingresso dello Stato nella proprietà, ma a tempo (fino al 2021 concede l’Ue): oggi ha quasi il 70%, i piccoli obbligazionisti hanno perso almeno la metà.

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